Tour Letterari

Tour Letterari: Nelle terre estreme

Un viaggio immaginario attraverso la letteratura…

NELLE TERRE ESTREME, STORIE DI WANDERES

 

Continuo a pensare e a ripensare che rimarrò sempre un vagabondo del mondo della natura. (…) Non smetterò mai di girovagare, e quando arriverà la fine, troverò il punto più selvaggio, più solitario e desolato che esista.

(Everett Ruess)

 

Il viandante – “der Wanderer” – nel Romanticismo tedesco è un avventuriero dello spirito, un essere che va alla ricerca di sé stesso, o meglio dell’indefinibile che sfugge a ogni più rigorosa disamina razionale. Sognatori acerbi che si avventurano nella natura cercando una risposta ai propri problemi, fantasticatori eccessivi, misantropi inveterati: ecco la prima parte di un articolo dedicato a sette wanderers che, intraprendendo razionalmente percorsi estremi, cercarono di afferrare quella svicolante entità che è la natura – quasi mai con esito positivo.

 

I Papar: avventurosi anacoreti.

Per comprendere le avventure di questi vagabondi visionari, forse, è opportuno cominciare dal principio, inserendole in un contesto più ampio.

A ridosso della costa sudorientale dell’Islanda sorge un’isola chiamata Papòs

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Bassa, brulla e rocciosa, l’isola di Papòs è costantemente graffiata da violente raffiche di vento provenienti dal nord atlantico; deve il proprio nome ai primi abitanti, i monaci irlandesi noti come papar che, però, hanno abbandonato da tempo quelle sponde ostili. I primi monaci giunsero sull’isola già nel quinto e nel sesto secolo d.C., dopo essere partiti dalle coste irlandesi a bordo delle loro curraghs, piccole imbarcazioni scoperte, fatte di cuoio teso su una leggera intelaiatura di vimini. Rischiarono la vita, attraversando uno dei tratti d’oceano più pericolosi al mondo, e di fatto molti di essi la persero, e non all’inseguimento di ricchezza, gloria personale o nuove terre. Come rilevò il grande esploratore artico e premo Nobel Fridtjof Nansenquesti straordinari viaggi venivano intrapresi principalmente per il desiderio di scovare posti solitari dove gli anacoreti potessero abitare in pace, lontani dal fastidio e dalle tentazioni del mondo.” Nel nono secolo, quando sulle sponde dell’Islanda comparve una prima ondata di norvegesi, i papar decisero che la zona era ormai troppo affollata – benché in realtà rimanesse sostanzialmente disabitata – perciò montarono sulle curraghs e ripartirono alla volta della Groenlandia. Furono trascinati oltre le furie dell’oceano, sospinti al di là dei confini occidentali del mondo conosciuto da nient’altro che sete di spirito: una brama di tale e misteriosa intensità da superare la moderna immaginazione.

 

Everett Ruess, il girovago di terre desolate.

Everett nacque nel 1914 a Oakland, in California; visse da nomade, assieme alla sua famiglia, fra Oakland, Fresno, Los Angeles, Boston, Brooklyn, il New Jersey e l’Indiana prima di fermarsi definitivamente nel sud della California, quando compì quattordici anni. A Los Angeles frequentò L’Otis Art School e l’Hollywood High. Nell’estate del 1930, a sedici anni, intraprese il primo viaggio solitario e attraversò, a piedi e in autostop, la Yosemite Valley e il Big Sur, concludendo il giro a Carmel. Ruess concluse gli studi nel gennaio 1934 e, meno di un mese dopo, si trovava già sulla strada, vagabondo e solitario nei canyon di Utah, Arizona e Nuovo Messico, regione all’epoca poco popolata e avvolta nel misticismo. Everett era, con le parole di Wallace Stegner, un “romantico imberbe, un esteta adolescente, un atavico girovago di terre desolate”. Fu il Davis Gulch

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l’ultima, fatale/ estrema, odissea di Ruess: l’undici novembre 1934 spedì le ultime lettere dalla comunità mormone di Escalante, circa cento chilometri a nord del Davis Gulch. È, questo, un canyon piccolo ma molto grazioso, con un’oasi situata nel fondo della gola, una gola talmente stretta da far pensare a una fessura: le sue ripide pareti rocciose rivelano misteriose pittografie vecchie di novecento anni, e nelle rientranze riposano ancora i resti di antiche dimore dei Kayenta Anasazi. Per buona parte del suo percorso il Davis Gulch scava una breccia profonda e tortuosa nella pietra levigata, breccia abbastanza stretta da avere prospiciente la sponda opposta e fiancheggiata da muri d’arenaria talmente a picco da impedire l’accesso al fondo, se non lungo un sentiero poco visibile che si apre all’estremità inferiore. Appena sopra il punto in cui il fiume omonimo sfocia nel lago Powell, una rampa naturale scende zigzagando dal bordo occidentale e poi sfuma in una serie di rudimentali scalini ricavati dagli allevatori mormoni, nell’arenaria, che consente di calarsi nel canyon. Fu proprio nell’incantevole rifugio sottostante – un mondo nuovo di pioppi neri, fichi d’india, muschi e capelvenere – che l’allora ventenne Everett Ruess incise il proprio pseudonimo nella parete, sotto un pannello di pittografie. «Nemo 1934»

Alla famiglia di Everett non giunsero più sue notizie e le autorità di Escalante organizzarono un gruppo di ricerca che rastrellò il territorio circostante: non fu mai ritrovato nulla degli averi di Ruess – attrezzatura da campeggio, riviste e dipinti. Varie congetture ci furono, sulla sua morte. Il padre, e il biografo di Everett, W. L. Rusho, credettero che, semplicemente, il figlio  si fosse ritirato dalla società organizzata – di certo indicativo, a tal proposito, lo pseudonimo che aveva scelto –, sparendo volontariamente, mentre Ken Sleight, che sulla sua sparizione investigò più a lungo di chiunque altro, è convinto che il ragazzo sia morto nel 1934 o all’inizio del 1935, affogando mentre tentava di attraversare il Grand Gulch, un affluente del fiume San Juan, a nuoto.

“La vita che conduce la maggior parte della gente mi ha sempre lasciato insoddisfatto e ho sempre desiderato vivere più intensamente, e con pienezza.” Che Ruess abbia, alla fine, trovato  il punto più selvaggio, più desolato?

 

Carl McCunn, il texano distratto.

All’inizio del Marzo 1981 il buon McCunn, pagò un pilota per farsi lasciare nei pressi di un remoto lago vicino al fiume Coleen, circa centoventi chilometri a nordest di Fort Yukon, nella Catena di Brooks.

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Fotografo amatoriale di trentacinque anni, il texano riferì agli amici che lo scopo del viaggio era quello di immortalare la fauna del luogo. Partì con cinquecento rullini, scorte per sei quintali, un fucile da caccia e altri calibro .22 e .30. L’intenzione era di fermarsi l’intero mese d’agosto, ma l’uomo dimenticò di prendere accordi con il pilota per il ritorno – e questo gli costò la vita. Nessuno si sorprese molto: Carl aveva l’indole del sognatore: poco a contatto con la realtà. Aveva la tendenza ad agire impulsivamente e ad abbandonarsi a bravate e a stupidaggini. Sul finire di agosto, quando le giornate nella Catena di Brooks si accorciano e l’aria si fa staffilante, McCunn iniziò a preoccuparsi, costatando che nessuno veniva a prenderlo: settimana dopo settimana avvertì l’inesorabile avanzare dell’inverno. Presto le scorte di viveri iniziarono a scarseggiare. Poi, in una frizzante mattina di settembre, la salvezza sembrò miracolosamente a portata di mano:  la quiete fu interrotta dal ronzio di un aeroplano che sorvolò l’appartamento. Il pilota, scorgendo la presenza di qualcuno, sorvolò la zona un paio di volte, ma McCunn, che pure era stato avvistato, aveva dato il segnale di emergenza sbagliato, un segnale universalmente riconosciuto come “assistenza non necessaria”. Quando i viveri si ridussero l’uomo scrisse sul diario, pubblicato postumo dal Fairbanks Daily News-Miner, «Mi sto più che preoccupando, onestamente comincio ad aver paura.». A novembre terminò le ultime razioni; a fine mese si tolse la vita, capendo che nessuno sarebbe giunto a salvarlo: si era accampato in una zona troppo isolata. Carl McCunn era, secondo le parole di Stoppel, “quel genere di persona che nutre l’irrealistica aspettativa che qualcuno, alla fine, si sarebbe immaginato la sua situazione e avrebbe risolto tutto”. Le sue fantasticherie erano troppo lontane dal mondo: ne pagò il prezzo con la vita.

 

Gene Rosellini: un esperimento antropologico

Figliastro di un facoltoso restauratore di Seattle, fu da giovane un ottimo studente e un buon atleta; malgrado l’intelligenza spiccata non si laureò mai: non ne vedeva il motivo. “La ricerca della conoscenza” sosteneva “è un obiettivo degno di per sé e non necessita di alcuna convalida esterna.” Rosellini lasciò l’accademia, partì da Seattle e risalì la costa attraverso la Columbia Britannica e la lingua di terra dell’Alaska. Nel 1977 giunse a Cordova dove, in una foresta ai margini della città, iniziò un particolare esperimento antropologico.

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«Volevo capire se era possibile essere indipendenti dalla moderna tecnologia.» riferì, dieci anni dopo l’arrivo, a una reporter dell’Anchorage Daily News. Si domandava se gli uomini potessero ancora vivere come gli antenati all’epoca dei mammut e delle tigri dai denti a sciabola, o se invece la nostra specie si fosse allontanata troppo dalle radici e non fosse più in grado di sopravvivere senza artefatti della civiltà: Gene perciò eliminò dalla sua vita tutti  gli strumenti che non fossero quelli primitivi creati dalle sue stesse mani. Gli uomini, secondo la sua opinione, erano regrediti  in esseri inferiori: lui sarebbe tornato a uno stadio naturale – e sperimentò età diverse: quella romana, quella del ferro, del bronzo, e infine si rifece al neolitico. Si nutriva di radici, bacche, alghe, e cacciava selvaggina con lance e trappole; vestito di stracci sopportava rigidi inverni e si sottoponeva a rigidi esercizi fisici – praticava, infatti, la ginnastica callistenica, il sollevamento pesi e la corsa, spesso con un carico di pietre sulle spalle. L’esperimento durò oltre dieci anni: dopo aver annunciato di voler cambiare stile di vita fu ritrovato cadavere, nel novembre 1991, privo di vita. Si era suicidato.

 

Fine prima parte.

 

Simona Friuli

 

(Le foto sono prese da google in quanto non ho mai fatto questo viaggio, bensì è basato su racconti)

Fonti:

-Krakauer Jon, Nelle terre estreme, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996, Milano, pp 102-103, pp 104-105-106, p. 108 pp 110-111-112, p. 114,  pp 119-120- 120-121, p. 124, p. 126, p. 128, pp 129-130, pp 143-144-145, p. 150, p. 153, p. 164,

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2 Commenti

  • Elisa e Dintorni Blog

    Ciao! Ho trovato interessante questa sezione del blog e mi ci sono soffermata.
    Le persone di cui parli hanno tutte quante inseguito un’idea e un sogno che avevano. Qualcuno era ben organizzato, qualcun altro è stato sprovveduto e sbadato nell’organizzazione. Dettagli non da poco, visto che poi l’hanno pagata con la loro stessa vita.
    Ad ogni modo non conoscevo questi personaggi e le loro imprese e mi hanno ricordato molto un film che ho visto e che è uscito qualche anno fa: Into The Wild. La storia è simile e parla di un ragazzo che parte in solitaria nella stura più selvaggia. La sua sopravvivenza e le sue conoscenze si basano su manuali. Anche in questo caso un piccolo errore costa la vita del giovane avventuriero.

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    • crescereviaggiando

      Ciao!! 😉 Ti ringrazio per i complimenti, gli articoli di questa sezione però non gli ho scritti io, ma Simona (una giovane scrittrice e amica a cui ho affidato questa rubrica) Entrambe siamo amanti dei libri e dei viaggi lontani. Anche io ho adorato quel film, bellissimo!! 😉 😉

      Silvia

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