Tour Letterari

Tour Letterari: Patagonia Express

Un viaggio immaginario attraverso la letteratura…

“«E questo cielo? E tutte queste stelle? Sono un’altra bugia della Patagonia, Baldo?»

«Che importa? In questa terra mentiamo per essere felici. Ma nessuno di noi confonde la bugia con l’inganno.»”

 

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Spesso un viaggio non inizia quando si parte, ma molto, molto prima.

Questo fu ciò che capitò allo scrittore cileno Luis Sepùlveda quando, seduto a un tavolo del caffè Zurich a Barcellona, incontrò Bruce Chatwin e assieme a lui progettò un viaggio ai confini del mondo: luogo in cui l’avventura non solo è ancora possibile, ma è la più elementare forma di vita. Il compiersi di questo progetto arrivò troppo tardi – troppo tardi il governo diede a Sepùlveda il permesso di rientrare in Cile, da cui era stato esiliato in seguito alle sue reazioni post-colpo di stato  – quando Chatwin se l’era ormai svignata, intraprendendo un altro tipo di viaggio, finale e inevitabile.  Sepùlveda partì comunque alla volta del Sud America, stringendo forte a sé il taccuino su cui prenderà appunti durante l’avventura: un’autentica Moleskinela stessa che possedevano Hemingway e Céline – che proprio Bruce gli aveva donato.

Certi libri parlano per sé stessi senza bisogno di intermediari; presi per mano dall’autore ecco che il viaggio comincia anche per noi.

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Chonchi: L’itinerario si apre così: solo, davanti al mare, a Chonchi, porto dell’Isola Grande di Chiloé, nell’estremo sud del mondo, Luis aspetta che gli diano l’ordine di salire sul Colono – alla volta delle fredde, profonde, imprevedibili acque australi – che lo lascerà circa cinquecento miglia più a sud, nella Patagonia Cilena.

“La maggior parte dei piccoli porti e dei villaggi dell’Isola di Chiloé furono fondati dai corsari, o per difendersi dai corsari, nel Cinquecento e nel Seicento. Corsari o Idalghi, tutti erano costretti ad attraversare lo stretto di Magellano e pertanto a passare da posti come Chonchi. Di quei tempi è rimasto il carattere funzionale degli edifici: tutti assolvono a due funzioni, benché sia solo una la principale. I locali servono da bar e da ferramenta, da bar e ufficio postale, da bar e agenzia di cabotaggio, da bar e farmacia, da bar e onoranze funebri. (….) Chiloé è l’anticamera della Patagonia, i suoi abitanti ci preparano a sopportare le belle e ingenue eccentricità di quelli che vivono più a sud. (…) Gli isolani sono robusti, di bassa statura, le gambe corte ma salde, trottano carichi di pesanti sacchi di patate e legumi, rotoli di stoffa, utensili da cucina, casse di sale, balle di erba mate, di tè e di zucchero, merci appartenenti a commercianti, in genere figli o nipoti di libanesi, che una volta sbarcati gireranno con le loro file di cavalli le fattorie e i gruppi sperduti fra le cordigliere, lungo i fiordi o nella pampa sterminata.”

Finalmente gli ormeggi vengono sciolti; il Colono si muove e punta la prua verso la Baia di Corcovado; all’ingresso del Gran Fiordo di Aisén vira a quarantacinque gradi, addentrandosi nella Patagonia cilena, Trapananda – questo era il suo antico nome; la lieve brezza avverte l’equipaggio che le acque del Pacifico sono state abbandonate. È tempo di mito.

“Nel 1504 il governatore del Cile don Garcia Hurtado de Mendoza, concluse, molto a malincuore, che le voci riguardanti grandi giacimenti d’oro e d’argento a sud di La Frontiera (…) non erano altro che questo: voci basate su fandonie. (…) Le voci della soldatesca parlavano di un misterioso regno di Tralalanda, Trapalanda, o Trapananda, che aveva città lastricate di lingotti d’oro, e dove le porte delle case si aprivano grazie a cardini fatti d’argento purissimo. Alcuni arrivarono ad affermare che  Tralalanda, Trapalanda, o Trapananda, altro non era che la mitica Città Perduta dei Cesari, una sorta di El Dorado australe.”

Sepùlveda si gode la traversata sempre mossa del Golfo di Corcovado: navigano a est degli arcipelaghi di Chiloé, delle Guaitecas, di Chonos, delle dozzine di isole disabitate, luminosamente verdi, castigate dai venti più forti che però non riescono a spegnere l’acceso color brace degli alberi di teak. Il traghetto procede a velocità moderata: le onde che il Colono provoca navigando non devono turbare il viaggio delle altre imbarcazioni in transito; i  comandanti di quelle piccole barche salutano grati, sollevando una mano; sono vagabondi del mare che danno, all’esule scrittore, il benvenuto in Patagonia.

Finalmente Luis sbarca; una serie di storie tra il magico e il circostanziato – altre bugie della Patagonia? – corredano il suo percorso; da questo momento il ritmo è sincopato ma serrato.

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Rìo Mayo: Si tratta di una piccola città della Patagonia argentina, perennemente spazzata da un forte vento che arriva dall’Atlantico e che al suo passaggio trascina sulla pampa arbusti di calafate, ciuffi di graminacee e tonnellate di polvere – normalmente nelle strade il polverone nasconde il marciapiede antistante.

“Nel 1977, durante la dittatura militare argentina, a un colonnello del reggimento Fucilieri del Chubut venne un’idea geniale – genialità militare, s’intende – per evitare riunioni cospirative. A ogni angolo, sui pali dell’illuminazione pubblica, installò degli altoparlanti che bombardavano la città con musica militare dalle sette del mattino alle sette di sera. (…) Dal 1977 gli uccelli evitano di volare su Rìo Mayo e la maggior parte degli abitanti ha problemi uditivi.”

Qui Sepùlveda descrive i campionati di bugie della Patagonia – esiste, al mondo, un altro torneo simile?raccontate dai gaucho esclusivamente davanti al fuoco, narra della capa, la castrazione a denti che i peones attuano sugli agnelli non da riproduzione. In questa città, distante un centinaio di chilometri da Coyhaique e altri duecentocinquanta da Comodo Rivadavia, Sepùlveda ritornerà a viaggio quasi ultimato, raccontando la favolosa storia dell’estroso Klaus Kucimavic – conosciuto da tutti come Carlitos il falegname – di cui era alla ricerca, su mandato di un’associazione di Stoccolma che consegna premi Nobel alternativi; un uomo che abbandonò la cattedra di fisica all’Università di Buenos Aires e si perse in Patagonia, in questa parte del mondo in cui non si fanno domande e il passato è semplicemente una faccenda personale.

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Los Antiguos: Una città di frontiera situata sulle rive meridionali del lago Buenos Aires, nella parte argentina della Patagonia e la storia, gemebonda, melanconica, dell’ingegnere naturalistico Pablo Casorla, che vive e lavora qui per realizzare un censimento della ricchezza boschiva ancora esistente –  un uomo che sogna una riserva naturale protetta dall’UNESCO. La descrizione del paesaggio che Luis Sepùlveda traccia ha sapore amaro, irrevocabile.

“I dolci declivi del monte che costeggiano il lago presentano dolorose interruzioni nel verde dei pascoli. Sono i resti di migliaia di giganti caduti, i resti di trecentomila ettari di bosco andati in fumo, bruciati per lasciare il posto alle praterie di cui necessitavano gli allevatori di bestiame. Ci sono resti di tronchi il cui diametro supera la statura di un uomo.”

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Porvenir: Le giornate si sono accorciate e dall’Atlantico provengono potenti brezze, attraverso lo Stretto di Magellano; Sepùlveda aveva intenzione di proseguire fino a Ushuaia, la città più australe del mondo (6, volendo). Ma le ultime piogge hanno danneggiato e interrotto la strada, che non verrà riparata fino alla primavera. Lo scrittore non né è rammaricato: a El Austral, un bar di gente di mare, preparano il delizioso Agnello di Magellano, aromatizzato da chiodi di garofano nascosti nel cuore delle cipolle che fanno da contorno.

Aspettando di mettersi a tavola – un’attesa quasi liturgica – Luis gode del vociare degli avventori e degli inebrianti aromi del vino.

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Angostura: “A nord di Manantiales, villaggio petrolifero della Terra del Fuoco, sorgono le quindici o venti case di un paesino di pescatori chiamato Angostura, e cioè “strettoia”, perché si trova proprio davanti al primo restringimento dello stretto. Le case sono abitate soltanto durante la breve estate australe; durante il lungo inverno non sono che un punto di riferimento nel paesaggio”. È in questo posto di burla che Sepùlveda racconta la straziante storia-leggenda del piccolo Panchito Barriales, ragazzino morto a undici anni di tristezza, abbandonato dall’unico amico che aveva allietato la sua triste vita di ragazzino reso invalido dalla poliomielite: un delfino che verrà, poi, ucciso da una delle assassine del mare, una nave-officina russa.

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Ujina: Un posto che, nel mondo, merita pienamente di essere definito ultimo; un villaggio formato da una ventina di case di fango, per lo più disabitate, e da una chiesa senza prete.  A più di duemila metri sul livello del mare soffia un vento indemoniato e capriccioso che cambia continuamente direzione, e la sua voce, passando tra le gole, si propaga nelle valli come un ammonimento. I pochi abitanti di Ujina, tutti aymara, lasciano supporre la loro presenza soltanto di notte, quando la luce taciturna e vacillante di qualche candela filtra dalle fessure di una finestra.

(…) Nella notte andina le sagome delle case si fondono col paesaggio aspro, dominato dal vulcano Olca con i suoi quasi seimila metri d’altezza. In questo luogo dimenticato una barriera di traversine, pietrificate a causa del vento carico di salnitro, interrompe  di colpo i binari della ferrovia AntofagastaOruro, treno molto lento che parte da Antofagasta, sulla costa settentrionale cilena, e inizia un viaggio di seicento chilometri in direzione nord-est, attraverso il deserto di Atacama, il più arido del pianeta: “lungo tutta la strada non si vede un albero, né un arbusto, né un cespuglio, né un filo d’erba, né un animale, né un insetto, né un solo uccello. Solitudine e ancora solitudine.”

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E in questo deserto – un vero e proprio regno dei morti che persino gli spettri rinnegano – in cui sono disseminate saline, fabbriche di salnitro abbandonate, scheletri di costruzioni degli inizi del secolo, veicoli mummificati che, sotto il castigo del sole impietoso, vive una delle più belle forme di vita del pianeta.

È la radice di un lichene antico che, sepolto una decina di centimetri sotto il terreno calcinato dai raggi solari, aspetta pazientemente il giorno dell’unica pioggia. “Quell’acquazzone minimo., sempre nel mese di marzo, bagna la terra che, assetata, assorbe l’acqua e quasi subito le nuvole svaniscono. Ma questo basta perché in poche ore tutto il deserto si trasformi in un giardino infinito di fiori intensamente rossi. Le rose di Atacama riescono a vivere solo un paio di ore, poi il sole le brucia e il vento spazza via i petali arsi.”

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Dopo due giorni penosi il treno riesce a risalire i cinquemila e tanti metri che lo portano a Ollagüe, sulla frontiera con la Bolivia; lì i pochi passeggeri passano sul treno boliviano che li porterà fino a Oruro, e il convoglio che è partito da Antofagasta prosegue per un altro centinaio di chilometri verso nord, costeggiando le alte cordigliere, e sei ore dopo si ferma alla fine dei binari, appunto a Ujina.

Fin qui si era spinto Sepùlveda, sia per viaggiare su quella linea ferroviaria desolatissima, che per incontrare Tom Bradley, fotografo che voleva vedere da vicino i condor; un’alba andina brevissima in cui dalla penombra si passa di colpo alla luce violenta.

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Shell: Villaggio pre-amazzonico in Ecuador; Sepùlveda si trova in una taverna opprimente, bevendo una bottiglia di rum, ricordando l’istrionica figura del capitano Palacios, irascibile – si arrabbia quando lo svegliano senza motivo…

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Puerto Natales e il Patagonia Express: L’arrivo dell’inverno sorprende Luis Sepùlveda a Puerto Natales, sulla costa occidentale del Golfo Almirante Montt. Per andarsene è necessario attraversare la frontiera e raggiungere il villaggio argentino di El Turbio. Da lì parte la più australe delle linee ferroviarie, il vero Patagonia Express che, dopo duecentoquaranta chilometri di marcia, collegando città come El Zurdo e Bellavista, arriva a Rìo Gallegos, sulla costa atlantica. Lo scrittore sale su questo convoglio formato da due vetuste carrozze passeggeri e da due vagoni merci, trascinato da una vecchia locomotrice a carbone; pochi viaggiano con lui che si perde nella contemplazione del paesaggio, solo un paio di peones e qualche estancia.

“Un manto di neve copre i pascoli e la pampa, sempre spruzzata di marrone e di verde, acquista una tonalità spettrale.”

Si tratta del treno dei pecorai: uomini forti che cercano fortuna nel continente, stanchi della povertà di Chiloé. Il tono aneddotico di Sepùlveda si fa caustico, amaro: “centinaia di chilote dalla vita breve – a Chiloé seguono un’alimentazione a base di frutti di mare e patate, in Patagonia la cambiano per un’altra a base di agnello e patate; non mangiano frutta né verdura”. Il cancro allo stomaco è, tra di loro, una malattia endemica.

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Santiago del Cile: Siamo giunti all’ultima tappa di questo magico viaggio; Sepùlveda è alla ricerca del gigante della letteratura cilena, lo scrittore di romanzi d’avventura Francisco Coloane.

Coloane fu baleniere, esploratore in Antartide, istruttore di marinai, pecoraio nella Terra del Fuoco, ed è uno dei naviganti che sono passati più volte davanti agli scogli mortali di Capo Horn. Luis ne aveva divorato, da bambino, tutti i romanzi e, grazie alla sua letteratura, era nato in lui il desiderio di viaggiare, di essere una specie di nomade che desidera vedere che diavolo si nasconde dietro l’orizzonte, sapere come vivono, sentono, amano, odiano, mangiano e bevono le genti di altre terre.

L’incontro tra Sepùlveda e Coloane sa di predestinato – speziato è il suo gusto quasi onirico – e assorbe entrambi; quando Luis esce da casa del suo gigante è tardissimo e la notte di Santiago non è meno calda del giorno. Ha ritrovato gli eroi dell’infanzia, gli avventurieri di sempre: Coloane gli ha passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte e latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i vagabondi del mare.

 

Gli appunti sulla sdrucita moleskine terminano così, con la potente, commovente considerazione di un Sepùlveda immerso nel crepuscolo e affatato: vivere è un magnifico esercizio.

Patagonia Express è un diario di viaggio, una raccolta di racconti, di riflessioni e testimonianze tra il favolistico e il reale non pensate per aver forma coesa, ma espresse nello stile fluido, rassicurante, incantatore, caratteristico dello scrittore – certamente frammentario, data la natura dell’opera.

Il lettore non può che divorare il libro tutto d’un fiato, e vivere sulla propria pelle il viaggio, naufragando in queste storie che solleticano la pianta del piede, inducendo a viaggiare, viaggiare, viaggiare…

 

Simona Friuli

(Le foto sono prese da google, in quanto non ho mai fatto questo viaggio, anche se mi piacerebbe tantissimo)

Fonti:

-Sepùlveda Luis, Patagonia Express, Ugo Guanda Editore S.r.l., 2001, p. 9, p. 12, pp 14-15, p. 16, pp 24-25, p. 27, pp 34-35, p. 40, p. 43, p. 49, p.57, pp 77-78-79, p. 88, pp 99-100, pp 111-112-113, p.  119, p. 123.

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