Angioini e Aragonesi: il Cilento e il Sud tra Francia e Spagna.

Castello Angioino - Aragonese, Agropoli (fotografia di Gisella Forte)
Castello Angioino – Aragonese, Agropoli (fotografia di Gisella Forte)

Intorno alla metà del 1200, il Cilento diviene, insieme a Napoli e a tutto il Sud, il sogno proibito di Angioini e Aragonesi: per un paio di secoli questi due contendenti faranno carte false pur di conquistare questa terra.

Dopo Federico II, infatti, la situazione è quantomai “ingarbugliata”: Corrado IV, figlio e successore dello stupor mundi, muore improvvisamente nel 1254. Manfredi, figlio di Federico e di Bianca Lancia (“biondo era e bello e di gentile aspetto”, scrive di lui Dante nel canto III del Purgatorio), assume prima la reggenza per conto di Corradino, figlio di Corrado, poi, nel 1258, si fa incoronare Re di Sicilia.

Il papato, però, non resta a guardare: Urbano IV e Clemente IV, entrambi papi di origine francese, pensano a come cacciare dai territori italiani gli odiati Hohenstaufen.

Tutta Italia attraversa un momento di grande lotta tra Guelfi sostenitori del Papa e Ghibellini sostenitori dell’Imperatore. Il papato intende eliminare qualsiasi minaccia all’affermazione e mantenimento del suo potere temporale, e il partito ghibellino cerca di affermare la propria supremazia sganciandosi da Roma – basti pensare ad Ezzelino IV da Romano nel Veneto, o a Farinata Degli Uberti a Firenze.

Questo è il contesto, tra l’altro, che fa da sfondo al carme che allegrò l’ira al ghibellin fuggiasco, nelle parole di Foscolo, quel capolavoro universale che è la Divina Commedia di Dante Alighieri.

È al partito ghibellino che, naturalmente, guarda Manfredi di Svevia, partito che sta raccogliendo importanti vittorie: si pensi ad esempio alla Battaglia di Montaperti del 1260 che segna la sconfitta dei guelfi fiorentini ad opera dei ghibellini senesi – con lo stesso Gonfalone di Firenze legato alla coda di un asino e trascinato nella polvere.

Papa Clemente IV, spaventato evidentemente dagli eventi, non esita ad offrire quindi a Carlo I D’Angiò, fratello di Luigi IX re di Francia, la cessione del Regno di Sicilia in feudo, a lui e ai suoi discendenti, con il ben esplicito patto che si dichiarasse vassallo della Chiesa, rispettasse i diritti del papato sulle altre terre d’Italia e abrogasse tutte le costituzioni contrarie ai privilegi ecclesiastici.

Carlo d’Angiò, avido di potere e di dominio, accetta senza remore, cala in Italia e viene incoronato a Roma. Con lui si inaugura un ramo cadetto della dinastia capetingia, appunto, il ramo angioino.

Manfredi, legittimo erede svevo, lo affronta allora nella Battaglia di Benevento del 1266: gli Angioini attaccheranno l’esercito svevo senza pietà, colpendo addirittura i destrieri dei cavalieri (cosa considerata estremamente scorretta). Manfredi combatterà con tutte le sue forze, ma verrà sconfitto ed ucciso, il suo corpo disseppellito e abbandonato fuori dai confini napoletani, sua moglie e i suoi figli lasciati morire prigionieri in carcere.

Carlo D’Angiò attende allora l’ultimo della stirpe, Corradino, chiamato in Italia a furor di popolo da quei ghibellini che alla fine lo lasciano solo: nel 1268, i due si affrontano nella Battaglia di Tagliacozzo.

Inizialmente, la vittoria sembra arridere agli Svevi, ma i Francesi, con uno stratagemma di Alardo di Valéry, riescono a catturare Corradino (“A Ceperan, là dove fu bugiardo/ ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo/ ove senz’arme vinse il vecchio Alardo”, scrive Dante nel XXVIII canto dell’Inferno): Corradino, appena sedicenne, tradito dai suoi baroni (ciascun pugliese bugiardo), è vittima perciò della voracità angioina. Come scrive ancora Dante, nel XX canto del Purgatorio, Carlo venne in Italia, e per ammenda/ vittima fè di Curradino: l’ultimo Hohenstaufen finisce così decapitato a Campo Moricino, ossia Piazza del Mercato, luogo eletto per le esecuzioni capitali a Napoli. Sarà il primo re cristiano condannato a morte ed ucciso per mano di un altro re cristiano.

Termina così, miseramente, una delle più belle e potenti dinastie di imperatori germanici, sicuramente la più importante per il Sud. Quattro anni dopo, nel 1272, anche re Enzo, il prigioniero di Fossalta, muore nel suo palazzo di Bologna, dal quale aveva assistito impotente alla totale rovina della sua famiglia.

Per il Sud e per il Cilento, l’arrivo degli Angioini al posto degli Svevi si può paragonare a una piaga d’Egitto. Quella angioina è una nobiltà cadetta, priva di successione ereditaria (nella monarchia franca vige il maggiorascato), costretta a diventare avventuriera e a cercare fortuna attraverso l’esercizio delle armi e il saccheggio, sfruttando risorse e ricchezze altrui, nobiltà che in Francia non sarebbe mai e poi mai diventata “grande”. Carlo d’Anjou è insomma “un poveraccio” in mano ai banchieri di Siena, Venezia, Genova, Roma, ma soprattutto Firenze: sono i Peruzzi, i Bardi, i Bonaccorsi, i veri artefici della sua “fortuna”. In cambio, i fiorentini ottengono, privilegio che nessun’altra città aveva, il libero commercio in tutta l’Italia meridionale.

Banchieri e finanzieri del centro – nord adottano quindi nei confronti del Sud un atteggiamento per nulla dissimile da quello degli usurai. L’economia ristagna, strozzata dalla speculazione finanziaria che non punta ad altro che a rifarsi dei crediti concessi, a differenza del nord, dove invece le banche finanziano le imprese produttive: ecco come si inaugura la “prima puntata” della questione meridionale, ecco da dove viene. Bisogna ringraziare papi e re stranieri e avidi di cotanto “dono”.

Carlo D’Angiò inaugura un governo duro, intransigente, e soprattutto molto, molto rapace. Sposta la capitale da Palermo a Napoli, perseguita i filo-svevi, spogliandoli dei loro feudi, passa i migliori uffici in mano francese, spolpa di tasse i vinti e mette a prova le buonissime istituzioni di epoca federiciana.

Non bisogna quindi aspettare molto per vedere i papi, notoriamente smaniosi di potere e ricchezze esattamente come l’Anjou, preoccupati del crescente dominio angioino, peraltro odiatissimo da quei baroni, specialmente siciliani, il cui malcontento monta velocemente.

Come spesso accade, una farfalla batte le ali e si scatena la tempesta: “Se mala segnoria, che sempre accora/ li popoli suggetti, non avesse / mosso Palermo a gridar: “Mora! Mora!”, scrive il Sommo Poeta nel canto VIII del Paradiso. Il pretesto che scatena la reazione siciliana è l’irriverenza di un soldato francese verso una nobildonna locale, durante la Seconda Festa di Pasqua del 1282. Al grido di “Mora! Mora!” i palermitani si abbandonano a una vera e propria caccia al francese, che diventa in breve un massacro, non solo a Palermo, ma su tutta l’isola: è l’inizio dei Vespri siciliani, e di una serie di guerre, le Guerre del Vespro, che termineranno definitivamente solo novant’anni dopo, nel 1372.

Molti nobili e baroni, asfissiati dal fiscalismo angioino, cominciano a cercare nuovi appoggi: Giovanni da Procida, ad esempio, che era uno dei familiares di Manfredi di Svevia nonché diplomatico e medico della Scuola Salernitana, acerrimo nemico degli angioini, guarda all’imperatore bizantino Michele VIII Paleologo, al Papa e soprattutto al re Pietro III d’Aragona, che aveva sposato Costanza di Hohenstaufen, figlia di Manfredi, quindi erede legittima dei domini svevi nell’Italia del Sud.

È proprio a Pietro III d’Aragona che i siciliani offrono la corona dell’isola: le Guerre del Vespro che ne seguono segnano, tra l’altro, l’arrivo degli Aragonesi nel Sud e nel Cilento, che riveste un ruolo assolutamente primario nella contesa tra queste due nuove potenze militari.

A Lauria, magnifica cittadina lucana non distante da Sapri e dal Golfo di Policastro, deve le sue radici colui che diviene Primo Ammiraglio delle Armate Aragonesi che, proprio durante i Vespri siciliani, sottraggono la Sicilia al dominio francese, quel Ruggero di Lauria cui a tutt’oggi sono dedicate piazze e strade in mezza Catalogna e Aragona: a Barcellona, per esempio, nel centralissimo e modernista quartiere dell’Eixample, una delle vie principali è Carrer Roger de Lluria, appunto, Via Ruggero di Lauria. È il Grande Ammiraglio di Lauria, colui che aveva dovuto riparare in Catalogna quando gli Angioini avevano cacciato gli Svevi, figlio della nutrice di Costanza di Hohenstaufen, ad infliggere una serie di cocenti e pesantissime sconfitte alla flotta francese. La tattica attuata dall’Ammiraglio è un esempio fulgido di strategia militare, ancora più geniale se si considera che il numero delle navi angioine soverchiava 3 volte quello delle navi aragonesi.

Oggi Lauria celebra il suo illustre figlio nella “Settimana dell’Ammiraglio“, una serie di eventi e celebrazioni che normalmente si svolgono in agosto.

Gli Aragonesi, occupata la Sicilia, risalgono la Calabria, e da lì verso il Principato Citeriore, ossia, il Cilento.

Torre di Novi Velia (fotografia di Gisella Forte)
Torre di Novi Velia (fotografia di Gisella Forte)

L’avanzata dei Catalani – Aragonesi sembra non conoscere sosta, grazie soprattutto alle feroci e temibili truppe molto ben addestrate di combattenti nordafricani e arabo – iberi, i terribili Almogaveri (Almogàvers, in catalano), che tanto “lustro” diedero per secoli alle armate aragonesi.

Chi si reca, oggi, a Barcellona, magari ad ascoltare un concerto nello storico locale Razzmatazz, si reca in Carrer dels Almogàvers: tanto importanti sono stati questi soldati per la Corona d’Aragona e i suoi domini catalani, da meritare ancor’oggi una strada intitolata; anche il loro capobanda, Ruggero da Fiore, ossia Roger de Flor, ha una strada intitolata a Barcellona, che si interseca con Carrer dels Almogàvers non lontano dall’Arc de Triomf.

La guerra angioino – aragonese risulta rovinosa per l’intero territorio del Cilento, soprattutto per la parte meridionale, dove la guerriglia infierisce con particolare forza specie dal 1284 al 1299. È l’acrocoro del basso Cilento a contenere l’avanzata dell’esercito assoldato dagli Aragonesi e costituito appunto dagli Almogaveri, ai quali si erano riunite bande siciliane. A differenza che in Catalunya o Aragona, quindi, il “ricordo” lasciato da questi combattenti nel Cilento è tutt’altro che benevolo (non che gli Angioini fossero meglio: “si nun è zuppa, è pane ‘mbuso”, si potrebbe dire con un proverbio).

Per arginare il pericolo, si sbarrano le più facili vie d’invasione, cioè le vie fluviali del Bussento, dell’Alento e del Calore. Si potenziano le fortificazioni di Policastro, di Santa Marina e Capitello a destra, e di Bosco, Camerota e del Monte Bulgheria a sinistra: si arma poi una seconda linea difensiva più interna, la Roccagloriosa – Torre Orsaia – Castel Ruggero.

Gli Almogaveri, tra l’altro, occupano Civita Pantuliano e Castellabate, confinante con Agropoli, a quel tempo già angioina.

I danni della guerra sono pesantissimi, tanto da portare il re angioino a stabilire l’esenzione dalle tasse per le popolazioni cilentane, peraltro messe a ulteriore dura prova da carestie ed epidemie collaterali alla guerra. In qualche caso, come a Novi Velia, si costruisce una fortificazione ex novo per adattarla alle nuove tecnologie militari. Ma il rigido sistema angioino e la consegna delle finanze del regno a mercanti e banchieri fiorentini, oltre agli abusi di feudatari o loro rappresentanti, aprono una pagina davvero torbida nella storia del Cilento.

Gli Almogaveri piegano la resistenza angioina sul continente, che assesta la sua difesa sulla linea del fiume Alento. Questa linea difensiva non sarà uno stallo geografico temporaneo, ma un vero e proprio fronte permanente talmente strutturato da essere puntellato di strutture militari e fortezze. Praticamente come funghi, spuntano in tutto il territorio del Cilento castelli di chiara impronta provenzale, costruiti sul modello del “padre” di tutti i castelli angioini in Campania: Castel Nuovo, a Napoli, anche detto Maschio Angioino.

Angioina è la maestosa Torre di Castelcivita (la “Civita Pantuliano” citata qualche rigo più su), alta 25 metri e costruita dai Francesi dopo i 3 anni di assedio necessari per cacciare gli Almogaveri che l’avevano occupata. Guido d’Alemagna, cavaliere di Carlo d’Angiò, fa ricostruire il castello di Castelnuovo Cilento (già normanno): lo stesso Guido “copierà” il maniero di Castelnuovo Cilento a Lucera e a Manfredonia, in provincia di Foggia – ulteriore “sfregio” al ricordo svevo, giacchè Manfredonia, come chiaramente intuibile, fu fondata dallo svevo Manfredi di Hohenstaufen.

Angioino è il Castello di Felitto, con una cinta muraria che fino alla fine dell’800 circondava l’intero paese, mentre a Novi Velia prosegue l’edificazione del palazzo feudale iniziato da Guglielmo da Marzano intorno all’XI secolo, che già sostituiva un precedente castello longobardo.

Angioino è il Castello dei Principi Capano, a Pollica, ereditato nel 1290 da Guido d’Alment, cavaliere al seguito di Carlo d’Angiò, il Castello di Teggiano, la Torre Angioina di Velia, il rifacimento del magnifico Castello di Agropoli, che dagli Aragonesi sarà ulteriormente rimaneggiato, tanto da assumere un nome che è tutto un programma: si chiama infatti Castello angioino – aragonese.

Castellabate, la cui fondazione è precedente all’arrivo degli Angioini (come già visto in questo precedente post), diventa snodo nevralgico nel momento in cui la linea dell’Alento diventa fronte permanente. Nella seconda fase del lunghissimo conflitto angioino – aragonese, ha subito ben due assedi: il primo, con il quale cade nelle mani degli Almogaveri – vi rimarrà dal 1286 al 1299; e il secondo, epico, con il quale Carlo II “Lo Zoppo”, figlio di Carlo d’Angiò, Principe di Salerno ed erede al trono di Napoli, lo riporta sotto il comando del Giglio di Francia.

Il Cilento continua ancora, insomma, ad essere cerniera. Dai popoli autoctoni con Greci e Romani, ai Bizantini con i Longobardi, Basiliani, Saraceni, rito greco bizantino e rito latino normanno, adesso è il tempo dei Fleurs-de-lys di Francia e delle Barras de Aragón: il piccolo territorio del Cilento è ancora protagonista nella macrostoria d’Europa… storia che continua.

Castello - Feritoia (fotografia di Gisella Forte)
Castello – Feritoia (fotografia di Gisella Forte)

Pubblicato da cilentofortravellers

Dietro questo blog si nasconde la penna di Gisella Forte, scrittrice freelance, blogger per passione, "viaggiatrice d'occidente" con casa, amici e piante su varie sponde del Mediterraneo, cilentana doc innamorata ovunque delle sue radici e dei tramonti sul suo mare. Parlare di Cilento è atto dettato dalla volontà di divulgare, far conoscere, far fruire un territorio bellissimo e ancora quasi "sconosciuto".

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