Itinerari cilentani: Grecia e Roma nella magnificenza di Paestum.

«Finalmente, incerti se camminavamo su rocce o su macerie, potemmo riconoscere alcuni massi oblunghi e squadrati, che avevamo già notato da distante, come templi sopravvissuti e memorie di una città una volta magnifica».

Goethe, Viaggio in Italia, 23 marzo 1787

 

Templi di Paestum (fotografia di Gisella Forte)
Templi di Paestum (fotografia di Gisella Forte)

 

Paestum, tappa imprescindibile del Grand Tour che tanto affascinò gli aristocratici europei dal XVII secolo in poi,  fu uno dei centri principali della Magna Graecia. I suoi templi sono secondi al mondo per stato di conservazione solo ad Atene, e sono inseriti nella prestigiosa lista dei siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO.

Le tracce più antiche di insediamento umano nel sito risalgono al Paleolitico; più consistenti sono le testimonianze relative all’età del Bronzo (Cultura del Gaudo).

La fondazione della città, invece, si dovette al bisogno che i Sibariti ebbero di aprirsi una via commerciale fra lo Ionio e il Tirreno attraverso la dorsale dell’Appennino, evitando la circumnavigazione della costa calabra e lo stretto di Messina. Sibari era allora città talmente colta, ricca ed erudita da lasciarci ancor oggi l’aggettivo sibarita, in uso tra l’altro in varie lingue, come sinonimo di persona dai gusti raffinati, che si circonda di comodità e lussi (“schiavi del ventre e amanti del lusso”, scriveva di loro Diodoro Siculo).

La colonia, situata in un punto strategico, al centro dell’incrocio delle vie commerciali tra il bacino ionico e le regioni italiche, fu chiamata Poseidonia in onore di Poseidone, dio del mare. La Piana di Paestum è, da allora, La Piana degli Dei.

Nel 510 a.C., in seguito alla distruzione per opera dei Crotonesi di Sibari, molti sibariti fuggirono a Poseidonia con le loro ricchezze, la loro esperienza e il loro spirito di intraprendenza, e la città raggiunse un alto livello di potenza economica e politica.

A questo periodo risale la costruzione dei tre templi noti col nome di Tempio di Hera o Basilica, Tempio di Poseidone e Tempio di Atena, anche detto Tempio di Cerere, coevi all’unico affresco di epoca greca finora scoperto al mondo, la splendida Tomba del Tuffatore.

Tempio di Nettuno, Paestum (fotografia di Gisella Forte)
Tempio di Nettuno, Paestum (fotografia di Gisella Forte)

Intorno al 420/410 a.C. i Lucani, popolo italico, cominciarono ad infiltrarsi nella colonia, lasciando numerose testimonianze della propria influenza in tombe affrescate secondo il modello dei maestri greci. Sul finire del IV secolo a.C., alleatisi con i Bruzi, sostennero una lunga lotta contro i Greci per il dominio dei nuovi territori verso il mare, che si concluse con la riaffermazione della loro supremazia sulla città, che cominciò a chiamarsi Paistom. Il carattere greco della città non venne, comunque, perso del tutto, anzi: il sistema monetario, ad esempio, rimase di chiaro stampo ellenico.

Nel 273 a.C. i Romani occuparono Poseidonia/Paistom, che così divenne la fedele Paestum, alleata di Roma anche nei momenti più difficili della sua storia.

Durante il periodo romano, a riprova di questo intenso legame, le attività economiche e culturali fiorirono nuovamente: sorsero nuovi edifici pubblici, come l’anfiteatro, il foro e il ginnasio, che contribuirono a donare alla città quell’aspetto che gli scavi hanno riportato alla luce. I Pestani erano socii navales dei Romani, e per l’aiuto portato ai Romani assediati a Taranto da Annibale durante la Seconda Guerra Punica, quando i Romani riuscirono a resistere grazie al grano proveniente proprio dalla città alleata, a Paestum fu concesso di battere moneta propria, privilegio mantenuto per secoli, fino a Tiberio: il conio di Paestum aveva la sigla “PSSC” (Paesti Signatum Senatus Consulto).

La città, di cui è nota l’intera estensione, è stata solo parzialmente riportata alla luce attraverso gli scavi archeologici, cominciati dopo che nel 1762 Carlo III di Borbone decise la costruzione della strada statale SS18, che di fatto, nel riportarlo alla luce, tranciò in due l’anfiteatro.

Molti turisti che arrivano a Paestum, evidentemente mal informati ma ben pronti a farsi guidare da pregiudizi e stereotipi, criticano “lo scempio tipico degli abusi edilizi che si fanno al Sud”, di fronte all’anfiteatro tagliato in due: non sanno, purtroppo, che senza quella strada molto probabilmente la meraviglia della città pestana sarebbe rimasta sepolta per sempre. Certo, è un peccato che l’impianto originario sia stato “toccato” così, ma è storia anche quella: per più di mille anni l’area su cui sorgeva Paestum è rimasta insabbiata, e di certo in epoca borbonica nessuno si aspettava un ritrovamento di questa portata.

Paestum, scavi (fotografia di Gisella Forte)
Paestum, scavi (fotografia di Gisella Forte)

Durante tutto il Medioevo, infatti, di Paestum si erano proprio perse le tracce: alcuni la collocavano ad Agropoli, altri addirittura a Policastro. Il fiume Salso, che scorre non lontano dalle mura meridionali, rendeva già insalubre tutta la zona fin dall’antichità, come documentato da Strabone, che riporta anche un altro dettaglio fondamentale: le acque del Salso erano estremamente calcaree, capaci di pietrificare in poco tempo qualsiasi cosa. Gli abitanti di Paestum per secoli corsero ai ripari, innalzando i livelli delle strade, sopraelevando le soglie delle case, canalizzando l’acqua. Purtroppo, non fu sufficiente: insabbiatosi il porto, la palude cominciò a “mangiarsi” l’antica città, e la popolazione si spostò progressivamente verso le zone alte e la collina, presso la sorgente del fiume, ossia presso la Caput Aquae che oggi è l’abitato di Capaccio, importantissima sede vescovile a partire dal XII secolo, luogo della Congiura ordita contro l’Imperatore del Sacro Romano Impero Federico II di Svevia nel 1246.

Il normanno Roberto il Guiscardo, sposo della principessa longobarda Sichelgaita di Salerno, spoliò i marmi di alcuni edifici di Paestum per adornare il Duomo di Salerno.

Alla fine del ‘700, come accennato, Paestum entra di diritto nelle tappe obbligate del Grand Tour: personaggi del calibro di Goethe, Winckelmann, Giovan Battista Piranesi, l’Abbé de Saint-Non soccombettero al fascino di questo luogo magico.

Ancora due secoli dopo, in pieno Novecento, sarà Giuseppe Ungaretti a lasciarci una meravigliosa testimonianza in prosa su Paestum e una delle sue meraviglie, conosciute fin dall’antichità: il terzo articolo della stupenda raccolta Il deserto e dopo si intitola infatti Le rose di Pesto. Nel suo viaggio a Sud, il grande poeta ermetico rimase affascinato da questa meraviglia.

La rosa, simbolo della primavera, deve il suo nome alla ninfa Roda, figlia di Afrodite e Poseidone. Già 2500 anni fa i roseti di Paestum erano famosi; Plinio il Vecchio ne descrive così il colore: “Paestanis rubeant aemula labra Rosis”. Nel poemetto De rosis nascentibus, attribuito a Virgilio, si fa esplicito riferimento alla particolare tecnica pestana della coltivazione delle rose e la citazione del curioso innesto che consente di trapiantare la rosa sul rovo, creando di fatto un ibrido. E nelle Georgiche il poeta scrive: «Se già non fossi al termine del mio lavoro canterei quale arte della coltivazione adorna i fertili giardini ed i rosai di Paestum che fioriscono due volte all’anno» (Virgilio, Georgiche IV, 116-124). La rosa di Paestum era chiamata in epoca romana damascena bifera proprio per via della sua doppia fioritura, primaverile ed autunnale. Ennodio (vescovo di Pavia al tempo di Teodorico e grande erudito) ricorda che «L’attività operosa dei paestani fece sì che i cespugli spinosi generassero rose, le quali mediante il lavoro germogliano dagli spini come stelle dalla terra»: grazie ad uno studio di paleobotanica avviato dalla Soprintendenza archeologica di Salerno, questa rosa è tornata a rifiorire all’ombra dei templi.

Delimitata da imponenti mura (V-III secolo a.C.), Paestum esibisce lungo la direttrice del cardo romano gli edifici principali. Al centro si estende l’area pubblica, di due epoche distinte: sull’agorà della città greca si affacciavano l’Ecclesiasterion (costruzione per le riunioni dell’assemblea) del V secolo a.C. e un importante edificio a forma di sacello (forse luogo di culto o tomba dei fondatori della città).

La città romana, invece, aveva qui il suo foro, con il Comitium (per le riunioni dell’assemblea), il Tempio della Triade Capitolina (Capitolium), la Basilica; alle spalle del foro si ergevano l’anfiteatro (I secolo a.C.) e un ginnasio ellenistico con una grande piscina.

Nei pressi della città, alla foce del Sele, si possono ammirare i resti del Santuario di Era (Heraion), uno dei più importanti santuari greci su suolo italico. Per un interessantissimo caso di sincretismo religioso, il simbolo attibuito alla dea Hera, il melograno, emblema di ricchezza e soprattutto di fertilità in epoca greca, passò poi alla Madonna cui è dedicato il santuario sorto lì nei pressi in epoca successiva, e chiamato appunto La Madonna del Granato (una delle “Sette sorelle” del Cilento).

L’area sacra comprendeva, oltre a vari edifici secondari, un tempio maggiore e un edificio più piccolo, il cosiddetto Tesoro, decorato da uno straordinario fregio con metope scolpite (oggi conservate al Museo).

I Templi dorici, come accennato all’inizio, sono secondi per stato di conservazione solo al Theseion di Atene. Il Tempio di Nettuno, o Poseidonion, è il più grande e meglio conservato tra i templi pestani. Visitabili sono inoltre il cosiddetto Tempio Italico, il Capitolium della città, dedicato cioè alla triade Giove, Giunone e Minerva.

Il Tempio di Athena, impropriamente chiamato anche Tempio di Cerere ed eretto intorno al 500 a.C. al centro del santuario settentrionale della città, costituisce uno degli esempi più felici dell’architettura templare della Magna Graecia a cavallo tra tardo arcaismo e prima età classica.

La cinta muraria è quasi completamente conservata, mentre le 28 torri sono quasi tutte ridotte a ruderi. In corrispondenza dei quattro punti cardinali, si aprono le principali porte di accesso: Porta Aurea a nord (demolita agli inizi dell’Ottocento), Porta Giustizia a sud, Porta Sirena a est, Porta Marina a ovest. Altre 47 aperture, chiamate posterulae, permettevano l’accesso alla città e avevano, inoltre, funzione difensiva.

L’area ospita spesso eventi, festival musicali molto importanti: per citare un esempio, nel 2006 (chi scrive ha avuto la fortuna di esserci) i Templi di Paestum sono stati lo scenario di un meraviglioso concerto di un mostro sacro della musica, che risponde al nome di Bob Dylan.

Degni di menzione sono inoltre il Museo Narrante di Hera Argiva, Heroon, la tomba consacrata al culto dell’eroe fondatore di Poseidonia, il condottiero dei coloni provenienti da Sibari; e l’Anfiteatro, una struttura per gli spettacoli pubblici tipica dell’architettura di età romana, dove si svolgevano soprattutto i giochi gladiatori e la caccia agli animali selvatici.

Paestum è importantissima anche dal punto di vista enogastronomico. La sua piana, infatti, è rinomatissima nella produzione di ottimi vini e di ciò che viene definito “l’oro bianco della Campania”: la mozzarella di bufala. La “Bianca di Paestum” è infatti una delle più buone, se non la più buona in assoluto, mozzarelle di bufala. L’allevamento delle bufale è storia antica, da queste parti, visto che, nei secoli in cui la Piana fu insabbiata e resa malsana dalla malaria, i bufali e le bufale erano praticamente immuni a questa terribile piaga. Il terreno pianeggiante servì quindi da sempre come pascolo per questa specie animale, che qui è praticamente parte viva del paesaggio.

Il mare, il cibo, la storia: Paestum è luogo unico, da non perdere. E come scriveva Ungaretti, “Tutto il resto che ci commuove, non verrà se non da malinconia”.

Scavi di Paestum (fotografia di Gisella Forte)
Scavi di Paestum (fotografia di Gisella Forte)

Pubblicato da cilentofortravellers

Dietro questo blog si nasconde la penna di Gisella Forte, scrittrice freelance, blogger per passione, "viaggiatrice d'occidente" con casa, amici e piante su varie sponde del Mediterraneo, cilentana doc innamorata ovunque delle sue radici e dei tramonti sul suo mare. Parlare di Cilento è atto dettato dalla volontà di divulgare, far conoscere, far fruire un territorio bellissimo e ancora quasi "sconosciuto".

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