Lo ammetto: dopo aver fatto l’Erasmus – pentendomi amaramente di essermene ricordato solo all’ultimo anno della magistrale – mi sono sempre sentito un po’ un pesce fuor d’acqua. Il ritorno alla normalità non è infatti così facile e la sensazione di straniamento si è manifestata via via più forte fino al suo culmine quando, a un paio d’anni dall’ormai conseguito titolo universitario, mi sono guardato allo specchio e mi sono reso conto di avere per le mani nient’altro che un pugno di mosche.
Lo so, è una storia come tante altre, senza colpi di scena e particolari maquillage ma fu proprio in quel momento, alla scadenza dell’ennesimo contratto precario a termine che decisi che, forse, era meglio giocarsi qualche carta fuori dall’Italia. Cominciò di lì a breve una rincorsa all’espatrio “migliore”: le mie e-mail contenenti CV e cover letter viaggiavano in più lingue e in più paesi perché sì, alla fine avrei accettato (più o meno) qualsiasi cosa contrattualmente migliore di ciò che avevo. Però si sa, il destino è beffardo e la chiamata tanto attesa arrivò proprio dall’unica location che forse in quel momento realmente bramavo: Madrid, la mia città dell’Erasmus, il posto giusto al momento giusto per il più romantico dei ritorni a casa.
Il ritorno a Madrid
Essendo, come il lettore potrà immaginare, un posto che già conoscevo in maniera abbastanza discreta non ho avuto grandissimi problemi di sorta nell’ambientamento; molti amici già sul posto hanno certamente contribuito ad allietare i primi tempi nonché a semplificarmi la vita nelle varie classiche peripezie quali la ricerca di una casa, l’apertura del “meno peggio” conto bancario, l’iscrizione alla Seguridad Social e tutti gli immancabili evergreen propri di ogni trasferimento che si rispetti. Va detto che, partendo con lavoro già più o meno bloccato dall’Italia (mancava solo la firma ma quisquilie), la vita è stata anche più semplice: dopo pochi giorni ho ricevuto il primo stipendio, ho conosciuto subito nuove persone e, soprattutto, a livello professionale ho iniziato a imparare qualcosa di nuovo già nei primissimi giorni di ufficio. Tutto ciò mi ha reso la vita più facile e mi ha permesso, in non troppo, di calarmi completamente in una realtà che, seppur vicina a quella italiana, è totalmente diversa e richiede un certo lasso di tempo per poterla comprendere a fondo.
In tal senso va detto, senza indugi, che chi dalla Spagna si aspetta una terra simile all’Italia, e da Madrid una capitale come Roma, sbaglia di grosso. La Spagna ha, dal mio punto di vista, molto più separata e netta la distinzione tra serietà e cazzeggio, riuscendo a esprimere – soprattutto nella sua Capitale – un perfetto connubio tra la professionalità e la serietà dell’impostazione cittadina e la solida struttura dei momenti di svago. L’equilibrio tra trabajo e fiesta è alla base di tutto il modus vivendi del madrileno perfetto che, a differenza di quanto avviene a Roma, riesce a recarsi a lavoro grazie a un sistema di trasporti assolutamente all’avanguardia e ha poi, una volta fuori dall’ufficio, l’imbarazzo della scelta circa il da farsi tra teatri, concerti, feste e folklore locale di tutti i tipi. Devo essere sincero: forse è proprio questa la caratteristica che più mi piace di questa terra, la capacità di offrire opportunità di tutti i tipi a tutti, riuscendo ad accontentare ogni palato.
La mancanza dell’Italia
Certo talvolta, non può che mancare la propria madrepatria. Personalmente parlando, ho sempre visto e vissuto questa parentesi in Spagna come momentanea, in quanto il mio concreto e dichiarato obiettivo è quello di tornare, con le spalle più forti e il curriculum più lungo, in quello che sento a tutti gli effetti come il mio paese. Vivere in una città geograficamente particolare qual è Madrid, circondata da montagne e caratterizzata da inverni freddi ed estati molto afose, mi permette spesso di provare un sentimento tra i più puri e innocenti della razza umana: la nostalgia, immancabile quando penso al mare della mia terra, la Puglia, sfrontata quando vado a cena e non rimango mai soddisfatto da una pizza o da un caffè spagnoli, violenta quanto tramite i media scorgo racconti negativi della mia Italia e non sono lì a poterli capire. Ma d’altronde la nostalgia è un sentimento ricorrente in tutti noi che ci allontaniamo dalla nostra terra, è un traino che ci permette di poter andare a dormire con il sorriso stampato in faccia pensando che manca sempre un giorno di meno al nostro rientro in patria e che tutto ciò che si sta facendo, ogni giorno, non potrà che rendere migliore il successivo landing nel Belpaese.
Proprio alla luce di queste ragioni io non posso che consigliare, a chi ne avesse voglia, di passare un po’ di tempo fuori dall’Italia, non importa dove: proprio per raccontare le storie di molti expat (ed ex) come me ho aperto un blog, Arrivederci Italia, nel quale chi vuole cerca di spiegare il proprio piccolo angolo di mondo provando, confrontandosi nel grande marasma che è la rete, di farlo conoscere. Varcare per un po’ i propri confini, inoltre, serve a tante cose: a ricaricare le pile, a rigenerare sé stessi, ad aprirsi al mondo, ad avere meno paura di ciò che è diverso, a imparare una nuova lingua, a conoscere nuove persone e nuove culture, a provare nuovi piatti e conoscere nuovi odori. Quanto tempo stare fuori? E chi se ne frega della durata del viaggio: l’importante è godersi il tragitto.
Di Mauro Agatone, blogger di www.arrivederciitalia.it