Paolo: Dottore
Paolo: Ma se le mandassi un testo splendido, non mio ma di tale Alvaro Siza
Paolo: Che si chiama Lisbona Ignorata
Fabio: Da pubblicare sul blog dici?
Fabio: Molto molto bello?
Paolo: Molto molto molto
Fabio: Dai passamelo
Fabio: Lo cerco su internet?
Fabio: Divulghiamo bellezza?
…
Fabio: Google non trova niente
Paolo: Biblioteche altro che Google!!!
Ed è grazie a questa chat su Whatsapp, ringraziando Paolo, che veniamo travolti da questo bellissimo racconto del maestro Álvaro Siza Vieira.
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Lisbona ignorata
Álvaro Siza : ”Scritti di Architettura”
La città evidente tra Santa Apolónia e l’Avenida da Liberdade, passando per la Baixa dai negozi modesti e dagli abbaini abbandonati, la Lisbona dello Chiado decadente, asfissiato dalla nostalgia e improvvisamente dorato, atmosfera corrosa dall’inquinamento, dalla polvere, dal fumo delle tavole calde. Lisbona delle spianate tra squarci dal taglio romantico e file di automobili – questa immagine evidente di Lisbona, quella del visitatore frettoloso, quello in transito verso un’altra città, compiendo strani rituali che il centralismo spiega – questa Lisbona inganna.
Se qualche incidente ci obbliga a fermarci, allora la Geografia ci prende per mano e la Storia ci conduce per corridoi in penombra, un cielo come un tetto, corridoi attraversati da squarci in qualunque direzione, dove la luce entra come uno schiaffo e le repentine visioni cubiste, frammentate e dense, di dettagli affilati come filo di rasoio – o le masse compatte di grandi strutture, i conventi, i palazzi alcune cupole o guglie che cercano il cielo di Lisbona. E poi subito muovendosi in salita, o dal fondo di qualche avvallamento, ciò che ci circonda acquista largo respiro e appare il Tago, il Castello, masse di verde che i numeri delle analisi difficilmente rivelano. Passeggiare a Lisbona: un movimento ritmato da un pulsare continuo e ardente – dilatazione, contrazione – come il battito di un cuore con occhi che vedono lontano o ricevono il fiato protettore dei muri dall’intonaco crepato, graffiato dalle spallate ricevute, dai colori sbiaditi, trasparenti, che si mischiano socchiudendo gli occhi, colori in movimento, che portano verso una nuova quota e ad un’altra percezione.
A volte Lisbona ricorda Venezia, vicino al fiume, dove il terreno è pianeggiante, quei tramonti lunghi e dorati, rosa, turchese, annebbiati; o la nitidezza dello sfondo di un quadro fiammingo e la minuziosa precisione della chioma di un santo o di un commerciante o di una Eva nuda.
I tetti sono facciate.
Gli edifici per uffici si scompongono , il paesaggio li ordina inesplicabilmente, non proprio come a Rio de Janeiro. C’è qualcosa di tedesco , ma non di aspro, nei quartieri popolari dell’estado novo, delicate stecche tra il verde dei cortili. La decorazione si mangia le pietre di calcare oppure lo fa l’inquinamento.
Sono scomparse le vele bianche del Mar da Palha.
Altre imbarcazioni lo attraversano. Grandi colonne di gente frettolosa attraversano le strisce pedonali del Terreiro do Paço, spariscono tra le auto parcheggiate all’uscita dei Cacilheiros, calpestano la calçadas di Lisbona, in bianco e nero, con disegni presunti antichi, pavimenti che mantengono il respiro del suolo di Lisbona, tanto calpestato, sotterrato, evocante civilizzazioni scomparse.
Questo vicolo ha le finestre che mi piacerebbe disegnare ma non posso, fatte da mani che avrebbero potuto fare progetti, mani ora tagliate, moncherini dai quali qualcosa nascerà.
Lungo le rive del fiume, in sacche di recente formazione, nascono portoni “nuovayorchesi” di seconda mano, moltitudini per la strada come a Madrid, turisti spagnoli e brasiliani, tra gente estranea alla confusione, che rientra a casa alle sette e trenta ed esce di casa alle sette e trenta, riempiendo le stazioni della metropolitana piene di azulejos e di mendicanti. La grande massa del Centro Culturale di Belem colloquia con i suoi pari – i conventi e i palazzi – attende il fiume e il momento di diluirsi ne caseggiati, sopporta il profilo mobile delle architetture. Ogni nuova traccia rimanda inevitabilmente ad una traccia antica. Passa il tassista di Tabucchi.
Lisbona cancella l’altra città di cui non parlo e di cui vive la prima.
Nei negozi incorniciati di calcare carico di cicatrici, o nelle periferie desolate tra colline e sulle colline, persiste un appetito insopprimibile di rigenerazione, l’impulso dei cataclismi e della persistenza, delle popolazioni emarginate, immigrate, adattatesi grazie a un’intensa gioia di vivere. La linea ondulata delle colline si dispiega come un tappeto che qualcuno stende in un gesto ampio, disegno denso, monti di pietre da cui emergono grandi volumi di una semplicità solenne, grandi terrazzi, muri di contenimento rivestiti di gladioli; si dispiega, segue il fiume, come in un Travelling fatto col fiato sospeso.
Lo sguardo si perde nel mare, la linea di orizzonte tremola.
Álvaro Siza Vieira
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