
Mi hanno segnalato un articolo particolarmente sgangherato – ancor più del solito, addirittura – sulla Turchia: una sorta di collage in cui sono stati incollati, uno dietro l’altro, dei fatti senza alcun rapporto l’uno con l’altro. Ovviamente, sempre in chiave negativa: e davvero non si capisce cosa abbia a che vedere tutto ciò con il giornalismo.
Ah, come ho spiegato nel post “Nuove regole per il blog (Turchia e giornalismo)“, sul blog non farò più nomi: né dell’autore dello scempio, né della testata che lo ha pubblicato. Voglio evitare che qualcuno scambi per “minacce” delle semplici e innocue critiche; è già successo, purtroppo.
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Comunque, tra i vari fatti che vengono strumentalizzati per mettere la Turchia in cattiva luce – attività non solo frequente, ma sistematica – il primo e più eclatante, quello che dà il titolo e l’orientamento generale al pezzo, è la messa in commercio di un tè chiamato “Ayasofya” (nell’articolo, persino il nome è sbagliato: e ciò nonostante la foto utilizzata sia quella giusta).
Quindi? Beh, l’idea è di far credere agli sventurati lettori che si tratta di un disegno diabolico: Erdoğan prima ha trasformato la chiesa di Istanbul – patrimonio dell’Unesco – in moschea, poi l’ha “declassata a prodotto commerciale”.
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Innanzitutto, come ho spiegato infinite volte: la chiesa di Hagia Sophia è stata trasformata in moschea dal Sultano Mehmed II nel 1453, non dal presidente Erdoğan nel 2020! L’anno scorso, dopo una parentesi come “museo”, l’edificio è stato semplicemente ripristinato al culto islamico. Dico: ma con che coraggio e con che professionalità si possono scrivere – e poi pubblicare – inesattezze simili?
Inoltre: ma cosa vuol dire che Ayasofya – si chiama così dal 1453, eh – è stata “declassata a prodotto commerciale”? Se la sono venduta, forse? No, davvero: ma che razza di ragionamento è mai questo? La moschea di Ayasofya è il monumento più noto di Istanbul (o almeno tra i più noti): e dà il suo nome a hotel, a ristoranti, a chissà cos’altro.
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Poi, sì: il tè viene commercializzato da un’azienda statale, la Çaykur. Anche in questo caso: e quindi? Nei fatti, che possono essere ricostruiti in 5 minuti con una semplice ricerca su google, il tè in questione si chiama più esattamente “Istanbul Ayasofya”: appartiene infatti a una serie di edizioni speciali che l’azienda – di Rize sul mar Nero, la capitale turca del tè – ha voluto dedicare alle città in cui apre di volta in volta delle sue rivendite. In passato, la Çaykur aveva proposto dei locali per bere tè – sul modello Starbucks – ma non credo abbiano avuto successo.
Comunque, tornando ai fatti: l’ultima rivendita di çay (il tè turco) della Çaykur è stato inaugurata a Istanbul, da qui l’edizione speciale “Istanbul Ayasofya”. Nessun complotto, nessun oltraggio. Dico: era davvero necessario scrivere addirittura un articolo – e poi pubblicarlo – su questo fatto del tutto insignificante? Era davvero necessario impegnarsi per far credere chissà cosa a chi legge? Vabbè!
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