La Istanbul di Orhan Pamuk e di Ara Güler

Istanbul
IIstanbul

(è un articolo che avevo scritto per una rivista culturale l’anno scorso; lo riverso adesso sul blog…)

Le carriere artistiche di Orhan Pamuk e di Ara Güler – tutti e due di Istanbul, il primo scrittore e il secondo fotogiornalista – hanno proceduto su binari paralleli per poi incrociarsi nel 1994 e da lì intrecciarsi, nei libri come nella frequentazione personale. Appartengono a generazioni diverse – Güler nato nel 1928, Pamuk nel 1952 – ma sono entrambi figli della borghesia agiata e cosmopolita ottomana (Güler si chiamava in realtà Aram Terteryan: un armeno di Turchia, cristiano); tutti e due hanno nutrito in gioventù l’ambizione di diventare pittori, salvo poi prendere strade diverse ma solo in apparenza: perché hanno invece continuato a produrre immagini anche senza usare i pennelli, con le foto e con le parole.

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L’incontro del 1994? Pamuk lo ha raccontato più volte, scherzando ma non troppo: nel 1994 Ara Güler – affermato fotografo di celebrità internazionali – ne ha scattato il ritratto per una rivista turca, facendolo sentire per la prima volta accettato dalla società locale come scrittore autentico e meritevole di pubblici riconoscimenti. Sono diventati amici, hanno collaborato – Pamuk con le parole, Güler con le foto – alla pubblicazione di libri: l’uno ha contribuito reciprocamente a rendere ancora più conosciuto e influente l’altro. Pamuk, premio Nobel per la letteratura nel 2006, dal fotografo turco-armeno ha ricevuto sia materiale d’archivio per il suo libro di memorie Istanbul (ricordi personali, ricordi della città), sia ispirazione creativa: “è dalle [sue] foto che ho imparato come osservare Istanbul, come riconoscere la sua essenza”, ha confessato nella prefazione a un volume di foto di Güler pubblicato da Thames & Hudson nel 2009.

Uscito nel 2003, il lavoro più originale di Pamuk raccoglie fitte meditazioni su ciò che rende la città sul Bosforo unica e speciale agli occhi dei suoi abitanti così come dei viaggiatori meno distratti. La parola chiave che lo percorre e gli dà ritmo è hüzün: una sensazione di struggente malinconia che implica un sentimento di profonda perdita spirituale, provocato dal contrasto tra lo splendore ordinato della capitale romana e ottomana e le disordinate rovine della successiva decadenza. Per illustrare il suo Istanbul, per rafforzarne i testi attraverso immagini rappresentative, lo scrittore turco ha fatto ricorso non solo agli album di famiglia ma anche all’archivio privato di Güler: 800.000 negativi immagazzinati nell’appartamento-studio davanti al liceo Galatasaray, nel cuore europeo di Istanbul, già dagli anni ’40. Vi ha cercato e trovato “non foto famose riconoscibili da tutti”, ha scritto in Ara Güler’s Istanbul, ma per l’appunto tutte quelle scene dei vicoli e dei quartieri derelitti che avrebbero trasmesso ai lettori “l’hüzün e l’umore in bianco e nero della [sua] infanzia”. Vi ha trovato e riconosciuto la sua Istanbul, documentata e non immaginata; o meglio, l’anima di Istanbul: “preservata e protetta

La specificità delle foto di Güler – rigorosamente in bianco e nero, scattate all’alba o al tramonto per enfatizzare i contrasti di luce – è quella di far esplodere le contraddizioni di una capitale millenaria sprofondata nella miseria e nel degrado. Ritraggono monumenti pericolanti, scene di ordinaria disperazione, stradine in ripida pendenza invase da fango e sporcizia, i mestieri umili del porto, le navi sul Bosforo e all’attracco, i cimiteri con vista pittoresca; ritraggono soprattutto persone: povere, fragili, sfigurate e deformate dalla fatica quotidiana (portatori, venditori ambulanti di ogni cosa). Ha fissato indelebilmente il ricordo di quel mondo oggi proiettato nella modernità, quasi sterilizzato dalle sue forme più arcaiche; un mondo che sopravvive solo in alcuni villaggi in riva al Bosforo, o in poche bidonville del centro in via di definitivo smantellamento.

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La fotografia è però arrivata nella vita di Pamuk ben prima di Güler, influenzandone prepotentemente lo sviluppo artistico sin da bambino. L’introduzione alla nuova versione di Istanbul, pubblicata nel 2017 con ulteriori 223 foto per un totale di 429, ha emblematicamente come titolo “Scattare e collezionare foto di famiglia” e come incipitNel 1962, mio padre mi regalò una macchina fotografica”. In principio furono l’otturatore e la luce, prima delle parole. Fotografo da bambino, il giovane Pamuk è passato alla pittura a 15 anni: e si è messo a ritrarre – “quasi ossessivamente” – Istanbul e il Bosforo dalla sua finestra e dal suo balcone, a riprodurre le sue foto scattate anche nelle stradine del suo quartiere, seguendo lo stile impressionista di Pissarro e Utrillo. Studente di architettura per un po’, ha cominciato a scrivere e ha smesso di fotografare e di dipingere, nel 1974.

Ha smesso, ma non del tutto: cercava di uccidere definitivamente il pittore che era in lui, eppure continuava a disegnare nei margine delle pagine dei suoi romanzi. Ha ripreso a dipingere e a far foto nel 2007, poi nel novembre 2012 a New York ha comprato una Canon 5D, un teleobiettivo e un treppiedi. Ha posizionato il tutto sul suo balcone della sua casa-ufficio che domina il Bosforo: e click, click, click, da dicembre all’aprile successivo ha scattato 8500 foto – 70 al giorno, 7 per ogni ora di lavoro alla sua scrivania. Ne ha selezionate 568, che sono diventate un libro e una mostra a Istanbul: “Balkon, il balcone al centro della Istanbul intimistica e malinconica, invernale e dalle tinte soffuse, di Orhan Pamuk. La mostra – vari formati dalle prove d’autore alle gigantografie, tutte rigorosamente senza cornice ma alcune incorniciate dai minareti della moschea di Cihangir – è in programma fino al 27 aprile presso il centro culturale della banca Yapi Kredi: a Galatasaray, proprio a fianco della casa-studio di Güler. Una vicinanza non solo intellettuale, ma anche fisica.

Sono foto d’impeto, improvvisate; non pianificate, non premeditate. L’obiettivo di Pamuk: registrare e preservare momenti di fortuita e fuggevole bellezza, attimi in cui la luce penetra tra le nuvole e le cupole della città romana e ottomana e crea combinazioni sorprendenti. Il vero protagonista è però il Bosforo, come proprio in Istanbul: le navi di passaggio, dalle petroliere gigantesche ai traghetti per i pendolari alle fragili imbarcazioni dei pescatori; le nuvole veloci che si compongono e ricompongono, mischiate al fumo intenso dei fumaioli, quasi a formare concrezioni; i colori, attenuati dall’inverno: i blu, i verdi, gli arancioni, i violetti e loro combinazioni stratificate.

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Dal suo balcone, Pamuk ha ritratto paesaggi: ripetitivamente gli stessi, ma ampi ed estesi fino alla costa asiatica e alle isole dei Principi, oltre che sull’antica Costantinopoli. Ha ritratto paesaggi in movimento, ha scattato sequenze – click, click, click (“mi piaceva [questo] suono, scrive Pamuk nel catalogo) – che riproducono l’incessante flusso di attività sulle acque e nel cielo, a inseguire traghetti o gabbiani. Ma la differenza con le foto di Ara Guler è evidente e stridente: c’è la città nei suoi infiniti dettagli visibili solo attraverso la lente, ma mancano le persone; Istanbul è colta solo nella sua superficie che si agita, ma è priva dei personaggi che popolano le stradine dei sui romanzi: anche di La stranezza che ho nella testa, sul quale in quei giorni era all’opera pur se immalinconito e distratto, un occhio sulla pagina e l’altro fuori dalla finestra.

Ara Güler è morto il 17 ottobre dello scorso anno. Nell’introduzione a Istanbul, scritta nel marzo del 2017, Pamuk si era augurato che la sua casa-studio di Galatasary potesse diventare un giorno un museo con archivio, per conservare le sue foto insieme alla sua collezione d’arte. Il suo auspicio si è in parte realizzato, troverà presto compimento. Già nel 2016, in effetti, un grande gruppo industriale turco – la holding Doğuş – ha avviato l’istituzione di un museo e archivio finanziato e gestito in proprio, con la collaborazione diretta del fotografo: proprio dove immaginava Pamuk, con un’ulteriore sede.

Le sedi sono due, comprensive di quattro spazi dal funzionamento diversificato ma integrato. Nell’antica fabbrica della birra di Bomonti oggi diventata centro di intrattenimento e di sperimentazione culturale, sempre sul lato europeo di Istanbul, un piccolo gruppo di professionisti – undici in tutto – è all’opera per inventariare, digitalizzare, restaurare se necessario e poi affidare ai depositi tutto il materiale posseduto dal fotografo, prima conservato nei suoi appartamenti di Galatasaray: negativi, foto stampate, macchine fotografiche e tutti gli accessori, la corrispondenza privata, documenti e materiali di ogni tipo sulla sua attività professionale, la biblioteca personale, gli arredi, la collezione di oggetti d’arte. Prima di venire smantellati e imballati, gli spazi dove Güler viveva sono stati fotografati così da poter essere ricostruiti fedelmente.

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Sempre a Bomonti è stato aperto uno spazio che ospiterà mostre temporanee realizzate coi materiali dell’archivio: è stato inaugurato da Güler il 16 agosto 2018 nel giorno del suo novantesimo compleanno, poche settimane prima di morire; una prima mostra introduttiva ha celebrato l’uomo e l’artista, ripercorrendone le vicende personali, la formazione, la carriera. La sua casa verrà invece trasformata in museo della sua vita, con l’appartamento, la camera oscura e l’ufficio rimontati esattamente così com’erano. In altre sale, in un edificio attiguo, verranno creati una galleria con le sculture e i quadri del maestro e un ulteriore spazio per mostre temporanee anche su artisti che dall’ “occhio di Istanbul” sono stati influenzati. Chissà se un giorno ospiterà una nuova mostra di foto di Orhan Pamuk.

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