(già pubblicato sul mio blog “Cose turche” di Look Out news)
La Turchia ha finalmente un nuovo governo, ma a brevissima scadenza. Visto che le forze politiche presenti nel Parlamento appena eletto non sono riuscite a formare una coalizione nei 45 giorni previsti dalla Costituzione, il presidente Erdoğan è stato obbligato a sciogliere l’Assemblea nazionale e a indire una ri-elezione (per il 1° novembre).
Il nuovo governo, sempre presieduto da Davutoğlu e dominato da ministri dell’Akp (molti presenti nella compagine uscente), avrebbe dovuto avere come particolarità – sempre prevista dalla Costituzione – l’inclusione di rappresentanti di tutti i partiti. Il primo ministro ha interpretato la norma in modo politicamente accorto, scegliendo esso stesso i deputati ritenuti compatibili con l’azione di governo: ha inviato 11 lettere di nomina, ha avuto però solo 3 risposte positive. I posti vacanti sono stati assegnati a dei tecnici o a politici indipendenti.
Nonostante il bilancio numericamente negativo, quello politico è invece straordinariamente in attivo. In effetti, era già noto che i deputati del Chp kemalista avrebbero rifiutato la proposta: e lo ha fatto anche l’ex leader Baykal, il cui ritorno al ministero degli esteri – dopo 20 anni – avrebbe creato non pochi malumori all’interno del proprio partito; com’era altrettanto noto il desiderio dell’Hdp filo-curdo di entrare per la prima volta al governo con due suoi rappresentanti, che hanno ricevuto i dicasteri degli affari europei e dello sviluppo: un evento apparentemente di portata storica, che va però ridimensionato in virtù delle circostanze molto particolari (una scelta obbligata, di certo non politica).
A destare grande scalpore è stata invece la decisione controcorrente di Tuğrul Türkeş: figura di spicco del Mhp e figlio del leggendario fondatore del partito Alparslan, che è diventato vice premier tra gli strali del segretario Bahçeli e minacce (credibili) di espulsione. Se consideriamo anche la nomina a ministro della cultura dell’ex leader del Bbp sempre nazionalista, la strategia dell’Akp per riconquistare la maggioranza parlamentare e tornare al potere con un monocolore appare evidente: attrarre i voti nazionalisti persi il 7 giugno, addirittura alleandosi – se ne sta parlando insistentemente – col Partito della felicità (islamista). Nel clima di tensione creato dai rinnovati scontri coi terroristi del Pkk, potrebbe rivelarsi quella vincente.