(articolo già pubblicato su Il Giornale Off)
“Riconoscete, chiedete scusa, risarcite”. Scritta a caratteri cubitali su tre striscioni (in turco, in armeno, in inglese) esposti durante le commemorazioni di Istanbul, questa formula racchiude le richieste della diaspora in occasione del centenario del genocidio armeno. Ankara, però, proprio non ne vuol sapere: né di accettare che gli eventi del 1915 siano ufficialmente considerati un genocidio, né tantomeno di scusarsi e di risarcire i discendenti delle centinaia di migliaia di persone che vennero uccise, allontanate dalla propria terra, invece costrette o spinte a convertirsi all’islam (essenzialmente donne e bambini), private dei propri beni.
Si appoggia essenzialmente su di una storiografia alternativa che rigetta la tesi di volontà e pianificazione genocidaria, enfatizza la minaccia separatista armena in combutta coi russi, inquadra “il grande crimine” nel più ampio contesto – infarcito di pulizie etniche, anche contro musulmani – della dissoluzione dell’impero ottomano (1912-1923). Suggerisce la completa apertura di tutti gli archivi, anche di quelli di parte armena: e sostiene non a torto che sono gli storici, e non già i politici, gli unici in grado di fare chiarezza.
Lo Stato turco ha però fatto grandi passi in avanti, rispetto a un passato anche recente: Erdoğan – un anno fa – ha espresso in un messaggio le sue condoglianze per le vittime armene, mentre un suo secondo e analogo testo è stato letto durante una messa di suffragio – il 24 aprile, il giorno in cui 100 anni fa l’élite intellettuale della capitale imperiale venne arrestata e deportata – nella cattedrale armena presso il patriarcato, alla presenza del ministro per gli affari europei. E’ la prima volta che viene dato il permesso per una funzione religiosa di questo tipo: un atto di incoraggiante maturità. Nel frattempo sono state restaurate e riaperte al culto delle chiese abbandonate da decenni, anche con fondi statali: come quella celebre di Akdamar sul lago di Van, candidata a rappresentare il patrimonio culturale turco all’Unesco insieme alla città di Ani “dalle mille chiese”; e stanno persino venendo alla luce le storie struggenti dei “resti della spada”: i discendenti degli armeni convertiti all’islam un secolo fa, che solo alla terza generazione – oggi che in Turchia sono più libertà e meno tabù – scoprono le proprie origini insospettate.
Soprattutto, ormai da alcuni anni c’è piena libertà di commemorare gli eventi del 1915 come “genocidio” (soykırım, in turco), di scrivere libri e indire conferenze accademiche con questo titolo. Per il centenario, si sono riunite infatti in riva al Bosforo alcune migliaia di persone: armeni turchi, armeni della diaspora discendenti dei sopravvissuti (molti, per la prima volta in Turchia), intellettuali turchi. Con slogan, striscioni, cartelli, ritratti, musica struggente, fiori hanno ricordato le vittime visitando i luoghi-simbolo del 24 aprile (la prigione, oggi museo delle arti islamiche, o la stazione da cui partirono i primi deportati) e della comunità armena, organizzando – oltre a un concerto e altre attività culturali – una grande cerimonia a pochi metri da piazza Taksim, alle 19.15. Tutto in totale sicurezza, disturbati soltanto dai lontani schiamazzi di un gruppuscolo di ultra-nazionalisti. Un 24 aprile alternativo e ancora minoritario (anzi, marginale), ma dalla piena e riconosciuta dignità.
FINALMENTE UN PO’ DI CHIAREZZA……..
COMPLIMENTI BELL’ARTICOLO.