Sopra i tetti del Gran Bazar

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(post originariamente scritto nel febbraio 2013)

Era da un po’ che avevo il desiderio di farla: e ieri finalmente ci sono riuscito! Una visita nei meandri del Gran bazar: una passeggiata sui suoi tetti, un’esplorazione dei suoi passaggi segreti e dei suoi han, una peregrinazione tra i suoi laboratori artigiani nascosti. In effetti, il Gran bazar – in turco Kapalıçarşı, semplicemente mercato coperto – è una delle attrazioni turistiche per eccellenza di Istanbul: come dice il nome è un agglomerato di negozi al coperto (circa 4000), con un’estensione vastissima e una frequentazione giornaliera di qualche centinaio di migliaia di persone.

Si trova nella penisola storica, accanto alla moschea di Beyazıt: è aperto dal lunedì al sabato, dalle 9 alle 19; vi si trova di tutto: cianfrusaglie, abbigliamento taroccato, gioielli, tappeti, antiquariato, cimeli vari, ceramiche, pellame, tessile di sublime qualità. Ha un’architettura complessa e labirintica, ci lavorano – come produttori riparatori  venditori – migliaia di persone; e’ gestito da una sorta di comitato rinnovato periodicamente tramite combattutissime elezioni.

Purtroppo, la presenza massiccia di turisti l’ha reso fastidiosamente banale: alcune sezioni sono preda di venditori invadenti, anche la storia del mercanteggiare obbligatorio comincio a sospettare sia tutta una montatura per fare i clienti felici e fessi.

Appena al di fuori dei suoi più battuti circuiti di visita, illuminatissimi e sfavillanti, si cela ben altro. Innanzitutto, una profusione di punti di veloce ristoro: kebab, köfte, kelle (teste di agnello); e poi, i laboratori di veri artigiani: che occupano polverose stanzette; o i grandi depositi – han – dove in epoca ottomana confluivano mercanzie dall’Asia centrale, dal Medio oriente, dall’Oriente lontano.

Da soli è meglio non addentrarsi, perdersi è facilissimo; io ieri ho infatti avuto una personalissima guida: il mio amico Levent, che commercia in tappeti e conosce il Gran bazar come le sue tasche. No, questa non è una squallida operazione commerciale. Levent – parla benissimo l’italiano, ha vissuto in Italia – i tappeti e i kilim se li fa venire da ogni luogo: regioni centrali e orientali della Turchia, Iraq, Iran, Caucaso; pezzi unici e a volte rari, anche con decenni e decenni di vita: la maggior parte fatti non per essere venduti ma per essere usati nei villaggi o sulle montagne, utili e non decorativi.

Li fa restaurare, li cede poi ai negozianti del Gran bazar e altrove: oltre che a qualche fortunato cliente isolato in cui s’imbatte (i prezzi sono molto competitivi rispetto a una normale rivendita).

Anche il suo magazzino è in un luogo buffo: un cortile in cui è custodita la tomba di un derviscio, poco fuori la porta numero 15. Con lui, ci siamo fatti un bel giro tra tetti e han: la vista è sorprendente, fantastica; in alcuni punti spazia fino al Corno d’oro e al Bosforo.

Abbiamo visitato i laboratori di qualche artigiano del rame, quelli di un riparatore di antichi samovar (per fare il té) e di un fabbricante di lucerne sempre in rame; abbiamo visitato un mercante armeno in icone: pare siano soprattutto donne georgiane, a fornirgliele. E altri ancora. Tutti si sono mostrati accoglienti e sorridenti, vogliosi di condividere rapidamente con noi i segreti della loro arte: nessuno era minimamente intenzionato a rifilarci un souvenir made in China.

So che delle agenzie turistiche specializzate organizzano regolarmente delle visite guidate: ma penso che dovrebbe essere il management del Gran bazar a promuovere iniziative per la salvaguardia degli antichi mestieri, anche solo creando un ‘ufficio informazioni’ per dispensare mappe dettagliate e consigli preziosi.

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