Vederlo in francese è davvero complicato –almeno per me- visto lo slang bambinesco-adolescenziale che risulta a tratti incomprensibile. Eppure, mi è piaciuto. Davvero! Sarà che è stato il primo libricino che ho letto, “La Guerra dei Bottoni”, in prima elementare; sarà che si avvicina molto alle storie raccontatemi dai miei genitori riguardo la loro infanzia in campagna, e che ho molto spesso cercato di imitare e riprodurre, tentando anche io di spennare galline per improvvisarmi capo-pellerossa o fare il bagno nel fiume, lurido ed inquinato, che scorre per la città. Le problematiche, le gioie, il mondo parallelo e fantasioso che si interfaccia in quegli inizi dei ’60 vissuti senza fatica o dolore, tra la scuola, la chiesa ed i campi. In una Francia che, se non fosse per gli angoli acutissimi dei tetti delle case, potrebbe benissimo essere l’Italia.
Astraiamo. Probabilmente non si “viveva meglio” allora: gli elogi dei tempi andati sono per chi vive senza speranza, umiliando il presente a dei ricordi corrotti, colmi di luoghi comuni che l’oggettività collettiva ha concesso come realtà.
Però un pizzico di malinconia per una società più cruda, sì, violenta, sì, ma vera, c’è. Ormai i bambini non si picchiano più: o meglio, rimangono solo gli spiacevoli episodi, sporadici, senza innocenza o candore, e cessa d’esistere il gioco delle spade e dei guerrieri. Nemmeno i nuovi genitori son più loro: quasi a disagio nel trovarsi di fronte a tale incarico imposto dalla voglia di uno spazio di appartenenza nella società.
E non si cresce più ‘in fretta’. E probabimente non si cresce più: ci si muove, più e più volte nell’arco della vita, tra periodi di estremo e cinismo ad altri di miserabile infantilismo. Senza limiti di volte o di età.
Basta, altrimenti vado estremamente troppo fuori tema. Siete a Parigi? Andate a vedere “La Guerre des Boutons”!