Cinquant’anni…e non sentirli

Uno degli aspetti più tipici della Bruxelles che conosco io è che in certi quartieri basta attraversare la strada (o…un ponte) per ritrovarsi letteralmente in un’altra dimensione.

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Sei tra gli ateliers di design del quartiere Dansaert, arrivi a Porte de Flandre, ti azzardi oltre il Canale magari incuriosito da un cantiere…Altri due passi e voilà [pronunciato con la “L” arrotata fiamminga, per restare in tema con la zona che hai appena lasciato] ti accoglie il mercato del giovedì a Molenbeek, dove l’atmosfera da souk è favolosamente reale, con banchi di spezie, venditori di foulards e djellaba, urli di richiamo in francese dall’accento arabo. Peccato che il bianco e turchese della medina di Rabat o il rosso di Marrakech abbiano lasciato spazio a qualche maison de maitre in stile nordico, con accenni di ringhiere arzigogolate pseudo-art nouveau ed i nuovi edifici voluti da massivi piani di quartiere che hanno riqualificato con successo il settore Comte de Flandre-Canal.

Che Bruxelles (e tutto il Belgio) abbiano anche questa connotazione “esotica” non è una novità: la Federazione Wallonie-Bruxelles (FWB) si prepara in questi giorni a celebrare cinquant’ anni di immigrazione marocchina.

Il 17 febbraio 1964 infatti il Belgio -in forte carenza di manodopera per le sue miniere, per l’industria siderurgica,  e per le fabbriche in generale- firmava un accordo bilaterale con il Marocco per il reclutamento di lavoratori.

Nulla di nuovo per l’epoca: c’erano già state intense ondate migratorie, soprattutto di Italiani (con un primo accordo bilaterale del 1946, volto ad incentivare l’arrivo dei molti che lasciavano l’Italia distrutta dalla guerra per cercare altrove  la fortuna o anche solo la dignità – almeno così speravano-, e un secondo nel 1957), ma dopo il disastro di Marcinelle il tutto era notevolmente rallentato.

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Le migliaia di lavoratori marocchini già arrivavano per passaparola, come dunque avevano fatto prima di loro Italiani, Polacchi, Spagnoli, Greci, Turchi: venivano in avanscoperta, per poi  farsi raggiungere dalle loro famiglie.

Se, quando venne firmato, l’accordo in sé non ebbe poi questa grande risonanza, è sicuro che sul lungo periodo abbia marcato in forma indelebile il volto e l’identità della società belga. Basti pensare che attualmente i Marocchini sono la seconda comunità straniera in Belgio dopo gli Italiani (solo quest’anno il nome Adam ha spodestato Mohamed tra i nuovi nati), almeno dai dati ufficiali, e che c’è stata anche una legge del  1974 che ha riconosciuto il culto islamico tra quelli che possono ricevere finanziamenti pubblici.

«In cinquant’anni, le nostre società sono diventate molto  miste», ha detto Fadila Laanan (Ministro francofono della Cultura e Pari Opportunità).

I volti di tutto questo sono molteplici: li cogli per strada, tra i colleghi, al corso di fiammingo, nei forum dedicati.

C’è quello di chi è arrivato qui quarant’anni fa, ha fatto un ping-pong tra acciaierie, miniere, e catene di montaggio, qui ha cresciuto i propri figli in un clima di tolleranza ed integrazione, e torna in Marocco solo per le vacanze, perché tanto ormai non conosce più nessuno e il proprio Paese adesso è questo.

C’è chi è arrivato da qualche anno, perché prima stava bene in Spagna, ma poi la crisi economica ha inziato a colpire duro, e -tra la scelta di ritornare a “Casa” in un flusso migratorio al contrario e quella di spostarsi verso un Paese che ancora offre opportunità e una lingua in comune- è prevalsa la seconda, e ora magari lavora alla Stib, o fa la guardia giurata, o è colui che ti sorride allo sportello della tua banca, o semplicemente ti prepara il durum in uno degli innumerevoli snack della città.

C’è chi è arrivato in Belgio direttamente per “far fortuna”, con il miraggio di quanto promesso da cugini e amici già partiti, o dalla Tv, e un po’ la sta facendo davvero, lavorando duro e/o arrabattandosi: in Marocco era professore in una scuola, qui magari fa il netturbino («un posto sicuro, e si prende di più che a rischiare di essere aggrediti come i mediatori culturali») e conta i giorni per rientrare al caldo con tutti i risparmi accumulati in modalità formica al thè alla menta. Tanto, là, un appartamento in città costa un quarto di quello che servirebbe a Bruxelles, che pure non è certo una delle capitali più care.

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C’è invece chi ha sì ripercorso da poco le orme dei migranti di cinquant’anni fa, ma senza troppa convinzione al di là del costo del volo, e ora passa il tempo a ciondolare per il quartiere, a fischiare dietro alle donne non velate, a rimpiangere il proprio Paese, ma a tornare non ci pensa proprio…ed a cercarsi un lavoro serio nemmeno. Tanto lo chomage ancora c’è, e gli hanno dedicato persino un film.

Ci sono poi i figli ed i nipoti del primo, che a volte (fortunatamente non troppe) tanto felici della scelta dei progenitori non sono, la voglia di studiare non l’hanno (ancora?) trovata, e arrancano: magari l’arabo lo parlano pure poco, ma sfogano il malcontento nell’estremismo, e dunque eccoli a manifestare davanti al Commissariato a sostegno di quella che non ha voluto scoprire il volto ed esibire i documenti, come avrebbe dovuto fare un qualsiasi Belga di una qualsiasi fede religiosa o politica. La loro stessa famiglia –che ha lottato per costruirsi un futuro con rapporti di buon vicinato,  seguendo il motto “casa è dove decidi di vivere”– disapprova,  ma loro se ne fregano, e sognano di imitare i loro vicini delle banlieues francesi.

E c’è anche chi in Belgio non avrebbe mai pensato di finirci, ma poi “per amore si fa tutto(o quasi), anche trasferirsi dove piove tanto: il matrimonio magari poi si rivela sbagliato e collassa, ma ormai si è in barca e bisogna remare, sperando che le disposizioni sull’immigrazione non rovinino quel poco che si sta costruendo, rispedendoci a “casa” perché “hai divorziato prima di tre anni” …e poco importa se in Belgio si ha sempre lavorato, pagato le tasse e ora si ha un contratto a tempo indeterminato.

Talvolta è troppo diretto cadere nel facile stereotipo, ma tanto anche noi Italiani siamo ancora “pizza-spaghetti-mandolino” e per questo non muore nessuno.

 

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Tra queste e mille altre sfaccettature, sono stati stanziati 500.000€ per organizzare una “stagione” artistica e di festa da febbraio a giugno 2014. La programmazione, coordinata dall’Espace Magh, è ricca, variegata e pluridisciplinare: si va dai documentari a tema, alle conferenze, alla proiezione di film, alle expo, concerti ed happenings di giovani artisti marocchini. C’è sicuramente una componente sociale e co-partecipativa: l’ Espace Magh aveva infatti lanciato un invito a presentare proposte, ricevendone circa 250. Tra queste, molte delle prescelte riguardano la storia e il dovere di ricordare. Questi progetti saranno realizzati in centri sociali, organizzazioni non-profit , centri giovanili, ecc , nel contesto di un vero e proprio festival. Non verrà trascurato l’aspetto educativo, con kit didattici ed attività nelle scuole, più documentari e clip via Web.

I festeggiamenti sono già iniziati, anche se l’inaugurazione ufficiale si terrà il 17 febbraio (ricorrenza della firma dell’accordo), al Bozar, in un evento gratuito ed aperto a tutti, durante il quale verranno proiettati documentari a tema.

 

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Najob Ghallale (direttore di Espace Magh) insiste sul fatto che il tutto non deve fermarsi alla comunità marocchina, ma è aperto a tutte le nazionalità che qui sono immigrate e a tutti i Belgi.

C’est du Belge…aussi…che lo si voglia o no.

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3 Risposte a “Cinquant’anni…e non sentirli”

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