Parmenide e il Munacieddo:filosofia e soprannaturale nel Cilento.

Capo Palinuro e il mare della Kora di Velia (fotografia di Gisella Forte)
Capo Palinuro e il mare della Kora di Velia (fotografia di Gisella Forte)

La Terra di Cilento ha tra i suoi tratti più peculiari una profonda, profondissima stratificazione storica: l’impatto antropico qui affonda nel passato remoto, e senza soluzione di continuità copre un arco temporale amplissimo che va dalla Preistoria più lontana all’attualità dei nostri giorni.

Questa straordinaria ricchezza è tanto smisurata quanto, purtroppo, quasi sconosciuta. In molti, sia tra gli abitanti che tra i visitatori di questa terra magnifica, poco sanno del tesoro che li circonda.

Tanto per limitare l’analisi a un solo argomento (anche perché è impensabile esaurire gli argomenti in un solo post), molti conoscono il nome di Paestum e Velia, di Parmenide e Zenone, molti sanno che qualcosa di importante c’è stato … ma spesso, oltre a questo, poco altro.

I Templi di Paestum si vedono anche solo passando per la strada nazionale, magari senza pensare che si tratta dei templi più belli di epoca greca, insieme al Partenone di Atene, rimasti così intatti su questo pianeta.

I concetti di “Essere” o della “Tartaruga e Achille piè veloce” ritornano vagamente nei discorsi sulla Scuola Eleatica, magari senza pensare a cos’è stata davvero la Scuola Eleatica, a chi era davvero Parmenide, cilentano del VI sec. a.C., a cosa ha significato la sua figura per tutto il pensiero occidentale.

Pitagorico in senso lato, rampollo di famiglia aristocratica, Parmenide è il legislatore di Elea: per generazioni, i magistrati di Elea continuano a giurare fedeltà all’ordinamento da lui stabilito, con un rito che si ripete all’inizio di ogni anno, al momento della loro entrata in carica; il geografo Strabone sostiene che se Elea, nonostante il numero dei suoi abitanti e la limitatezza territoriale, era riuscita per secoli a opporsi validamente alle mire aggressive dei potenti vicini – Lucani e Posidoniati su tutti, gran parte del merito andava ascritto alla solidità della costituzione datale da Parmenide e perfezionata da Zenone.

La sua opera è esempio della necessità di costruzione tanto dell’uguaglianza come della fraternità (nel senso più puro di fraternitas universale).

 Il concetto chiave della sua metafisica, l’essere, è sostenuto dalle catene della Giustizia: Dike apre le porte del Tartaro, “Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono”, scrive in uno dei suoi Frammenti.

Giustizia, legge, politica, cittadinanza e uguaglianza, ma anche metafisica, rituali, descrizioni mitiche e linguaggio poetico, e quindi creazione di un pathos, di una epica delle proprie idee. Invece di presentare le proprie riflessioni come tali, come semplici elucubrazioni mentali che vuol rivolgere ai propri concittadini, Parmenide organizza una fitta trama densa di significato simbolico, e non a caso sceglie di scrivere in versi con uno stile epico.

Parmenide avrebbe infatti potuto scrivere in prosa o in un altro stile poetico. Invece sceglie la poesia epica, una poesia che fin dai tempi di Omero era servita per proporre un’identità collettiva, sociale e culturale.

Se a questo si aggiunge l’importanza del ruolo politico che Parmenide ha avuto nella sua città, è evidente che dietro questa scelta stilistica vi sia una chiara intenzione politica: dare ai propri concittadini non soltanto delle leggi, ma anche un’epica in cui riconoscersi e creare così una nuova idea di fraternità tra gli eleati.

Legislatore, quindi, e filosofo… ma non solo.

Parmenide di Elea non era un “semplice” filosofo.

Senza scomodare troppo “l’esoterismo di René Guénon”, che Battiato cantava nella sua splendida Magic Shop, tutta la Tradizione primordiale è riscontrabile nell’opera parmenidea, specie nel proemio del suo “Sulla Natura” – di cui il Frammento sulla Giustizia citato pochi righi più su è parte:  Parmenide era uno sciamano, un medico, un iniziato, oltre che un filosofo.

Proprio dai Frammenti delle sue opere che sono arrivati fino a noi, è possibile leggere tracce di certo ancestrale Sciamanesimo arcaico di impronta panasiatica, che dalla Cina, attraverso la Siberia, arriva alla Grecia e all’Asia Minore, regione dove sorgeva la città di Focea, madrepatria dei coloni di Elea.

La radice storica dello sciamanesimo arcaico presenta tratti di estrema vicinanza con la Sapienza Orientale, e geograficamente ha un’enorme influenza sull’immenso continente euroasiatico, dal Baltico all’Estremo Oriente.

In epoca classica, infatti, la pratica e l’ideologia sciamanica si diffondono nei territori settentrionali delle tribù indoeuropee, attraverso le steppe, dall’India e dalla Bactria fino alla Tracia e alla Scizia tramite la famosa Via dell’Ambra e con la trasposizione di autentiche mitologie di stampo iperboreo.

Importanti personalità di tale corrente iniziatica sono i filosofi presocratici, Parmenide, Empedocle, Pitagora, e personaggi semileggendari come Aristea, Orfeo, Hermotimo.

Come per il pitagorismo, essi attuano sia una meditazione silenziosa sia diverse forme di estasi di derivazione dionisiaca, ma con delle interessanti varianti apollinee, in cui nell’alterazione degli stati coscienza si accentua un costante elemento di attività cosciente.

E’ ciò che, per esempio, in similitudine alle pratiche di yoga, si ritrova nel Perí Physeos di Parmenide (il citato “Sulla Natura”): “Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere, mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo che sa”.

Sciamanico è, appunto, il motivo del carro (carro dell’anima) condotto dai cavalli fino alla Soglia. Ma si può andare ben oltre.

I Culti Misterici della Grecia classica di matrice orfica, delfica, ecatica ed eleusina – che tanta importanza hanno avuto anche nelle città “cilentane” della Magna Graecia – sono profondamente impregnati di sciamanesimo: l’antico adagio secondo cui “molti sono i portatori di tirso, pochi sono gli iniziati” riafferma la centralità di Eraclito, di Parmenide, di Sofocle, di Euripide, di Platone, di Aristotele (tutti iniziati ai Misteri), come base essenziale della Sapienza Ellenica.

Lo sciamanesimo panasiatico molto probabilmente era già, in qualche modo, arrivato nel Cilento: nel Museo archeologico della Lucania occidentale, sito a Padula nella meravigliosa Certosa di San Lorenzo, è possibile vedere alcuni vasi, databili al 1000 a.C., in cui sono raffigurate alcune svastiche villanoviane, sannitiche e lucane. Allo stesso modo, la svastica appare come motivo decorativo su alcune vesti femminili ritrovate a Paestum, così come nella pavimentazione a mosaico di un edificio termale proprio a Velia, l’antica Elea.

La svastica, che nel XX° secolo si è ammantata di un’aura di tremenda negatività, in quanto è assurta a simbolo di una delle peggiori tragedie che l’umanità ricordi, cioè la dottrina nazista, è invece un simbolo antichissimo e di tutt’altro genere: la stessa parola deriva dal sanscrito svastika (termine peraltro maschile, si dovrebbe infatti dire “lo svastica”, e non “la svastica”), e significa letteralmente il bene, benessere.

Nelle culture religiose orientali come il Buddhismo, l’Induismo, il Giainismo, la svastica è infatti un simbolo religioso propizio, e con questo stesso significato augurale viene usato da molte altre culture fin dal Neolitico – anche se alcuni reperti rarissimi sono addirittura precedenti, e si attestano al tardo Paleolitico.

Questo simbolo, che come visto è stato ritrovato anche nel Cilento, appare su alcune ceramiche ritrovate nella regione del Khuzistan, in Iran, nelle proto scritture dell’antichissima Cultura di Vinča, nei Balcani, nei ritrovamenti ascrivibili all’Età del Bronzo a Sintashta, nell’Oblast di Chelyabinsk in Siberia, Russia, e all’Età del Ferro in Azerbaigian e nel Caucaso settentrionale.

Non deve sorprendere, quindi, il parallelismo metafisico tra l’Essere parmenideo e il Dharma nelle Upanishad, o l’accostamento tra lo stato di trance e la vitalità comune alle esperienze iniziatiche sia di Dioniso sia dell’orientale Shiva.

Dioniso, come Shiva, è il Dio dell’ebbrezza (la Via della Mano Sinistra), ma anche della contemplazione, del distacco. L’uso simbolico dello specchio, la danza delle menadi, riportano a una sorta di scatenamento consapevole ed unitario.

In Dioniso, nelle danze delle sue Baccanti, nei Coribanti, si realizza l’unità del cosmo tramite la musica, e si ritrova la centratura e la sublimazione dell’ego. Ancora oggi, la danza delle menadi vive nel ballo della Taranta, e nella musica popolare che muove ancora da quei ritmi ancestrali.

Non è tutto; si può leggere un’impressionante similitudine tra il pensiero di Parmenide e una fondamentale dottrina dell’Estremo Oriente: il Taoismo, specie in alcuni suoi testi, come il Chuang Tzu – nel quale, tra le varie, una tartaruga insegna la cosmologia ad una rana, tartaruga che ricorre spesso proprio nei Paradossi di Zenone di Elea, e nei testi di Lao Tze. Il Tao di Lao Tze ha tantissimi punti in comune con il Non-Essere di Parmenide.

L’Eleatico, iniziato ai Misteri, è quasi certamente anche un sacerdote di Apollo, dio e protettore degli iniziati nonché custode della medicina, naturalmente la Occulta Medicina degli alchimisti.

Il culto di Asclepio, che è un’ipostasi di Apollo stesso, è estremamente diffuso ad Elea (famosa appunto per il suo Asclepeio, che è una sorta di “ospedale” dell’antichità), e tra gli attributi di Asclepio compare il caduceo con due serpenti intrecciati, esattamente come il simbolo taoista del Tai – Ki (ossia, Yin – Yang) che esprime la duplicità della forza cosmica creatrice.

Questi riti iniziatici di un tempo lontano si ritrovano, oggi, nelle case, nelle vie di Cilento, seppure in maniera irriconoscibile.

Dopo un paio di millenni di cristianesimo, e dopo molta, molta acqua passata sotto i ponti, certa tradizione ha finito per sfociare in superstizione, ma ciò non toglie che l’osservazione di certi fenomeni, ancora vivi, sia, oltre che storicamente, antropologicamente molto interessante.

Ad esempio, alcune credenze, retaggio del passato, si intrecciano con la medicina popolare, ma il rimedio che propongono è esso stesso un rito cui si attribuisce potere taumaturgico, più che una cura. Il mal di testa e altri malanni, ad esempio, sono “curati” con un rituale ancestrale, praticato solo dalle iniziate: l’uocchio.

L’incantesimo pronunciato dalle guaritrici che fanno l’uocchio deve la sua origine a pratiche che vengono dall’Antico Egitto: l’uadjet, ossia l’occhio di Horus, considerato uno degli amuleti più potenti per tener lontane le cattive influenze.

Continua ad essere rituale anche il modo in cui questa “sapienza” si tramanda: la guaritrice iniziata insegna il rito alle iniziande solo la notte di Natale; c’è chi, per questo, parla di Esoterismo cristiano.

C’è stato, in passato, un fiorire di leggende intorno a queste pratiche, che ancora si raccontano – in toni spesso faceti – e che vanno, ad esempio, dall’olio che si agita all’olio che scappa dal paziente affatturato (ossia, che è stato colpito da una fattura, una maledizione).

Nel dialetto cilentano, che sempre parla per metafore, comunissime sono le espressioni: Tene n’uocchio ‘nguoddu (letteralmente: avere un occhio addosso), Mancu n’uocchio! (Neanche un occhio!) Pigliatu a r’uocchio (preso dall’occhio) come sinonimo di “essere particolarmente sfortunato” – l’elenco di queste espressioni potrebbe essere lunghissimo.

Altre figure mitologiche, come ‘u sierpu ‘ccu l’occhiali (serpente con gli occhiali) o ‘u sierpu cc’a barba (serpente con la barba), affollano il Bestiario meraviglioso delle terre di Cilento.

L’onnipresente Munacieddo, spiritello dispettoso che abita soffitte e cantine e si calma solo se gli si toglie il cappello, comune a tutto il Sud Italia e diffusissimo nel Cilento, anche se “napoletano di nascita”, è descritto anche da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli: “Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave”.

Il Munacieddo, spirito burlone che popola fantasie e racconti, rimanda al tempo in cui Elea, Poseidonia e il Cilento tutto sono già diventati romani: è dal latino incubare, letteralmente dormire, giacere sopra, che questo piccolo demone prese il nome di incubo.

Busto di Parmenide 

Pubblicato da cilentofortravellers

Dietro questo blog si nasconde la penna di Gisella Forte, scrittrice freelance, blogger per passione, "viaggiatrice d'occidente" con casa, amici e piante su varie sponde del Mediterraneo, cilentana doc innamorata ovunque delle sue radici e dei tramonti sul suo mare. Parlare di Cilento è atto dettato dalla volontà di divulgare, far conoscere, far fruire un territorio bellissimo e ancora quasi "sconosciuto".

Una risposta a “Parmenide e il Munacieddo:filosofia e soprannaturale nel Cilento.”

  1. Gentilissima,
    non sono certo che questa mia le arriverà visto che il suo risale al 2016, ma in questo assurdo periodo che viviamo (2021) mi piace pensare che sia possibile fare cose strane. Confesso che mi ha stupito positivamente il suo contributo al cilento e soprattutto a parmenide. Notevoli i rinvii non banali che lei è riuscita ad inserire. I miei vecchi erano cilentani e mi sento debitore delle mie radici pedemontane (Cervati). Le sarei grato se mi potesse suggerire fonti per approfondire il ruolo di Elea nella storia del Cilento. La scuola di medicina Salerno voluta dai normanni potrebbe avere un filo rosso con la scuola di Aesculspio di Parmenide? La Certosa di Padula e il convento di Laurino che ospitava malconci Pellegrini basiliani.
    Da Vecchio agronomo sono contento che una giovane ricercatrice sia innamorata della sua terra, forse avara, ma stranamente ricca.
    Saluto
    Nicola Maria T

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